Storia

Don Giacomo Angeleri e la peste americana

| Don Giacomo Angeleri e la peste americana

a cura di Paolo Faccioli, aprile 2006

Racconta il figlio di Domenico Bordone, detto Minòt, colui che diede il primo impulso all’apicoltura del Roero, che il padre, a scuola da don Angeleri, venne un giorno da lui incaricato di andare a prelevare un bugno villico da uno scantinato. Don Angeleri intendeva eseguire la classica dimostrazione di un travaso dal villico all’ arnia razionale. Minòt lo porse al nostro prete, che, annusatolo, gli disse di riportarlo indietro perché “non andava bene”. Al che Minòt protestò dicendo: “Ma don Giacomo, sono proprio queste le cose che abbiamo bisogno di sapere!”

L’atteggiamento di Don Angeleri riguardo alla peste americana (che, fra le malattie delle api, come lui stesso è disposto ad ammettere, ” è certo quella che fa maggiori danni all’apicoltura di tutto il mondo”), emerge in forma sistematica in una serie di articoli del 1943, in cui ne riprende altri del 1939. Angeleri afferma in primo luogo la sua convinzione che la diffusione della peste americana sia collegata all’uso dell’arnia razionale, non in quanto tale, ma in quanto eventualmente oggetto di una gestione non professionale degli apiari. La cultura del bugno villico godrebbe di un ciclo più veloce di eliminazione dei materiali infetti, vuoi grazie all’eliminazione dell’intero alveare da parte dell’uomo per procacciarsi il miele (tramite l’apicidio), vuoi all’attività pulitrice della tarma della cera. E fin qui possiamo facilmente dargli ragione, con le dovute eccezioni che l’episodio di Minòt testimonia.

Angeleri dà purtroppo la descrizione dei sintomi di questa malattia a partire soltanto da uno stadio piuttosto avanzato: “aspetto patito e contegno preoccupato delle api”, un sintomo che preso di per sé può essere interpretato anche in diversi altri modi, analogamente all’altro: “continua costruzione di celle reali”. Sintomi più specifici della peste americana, quali “opercoli scuri e alquanto depressi”, “odore intenso” sono invece appunto indice di uno stadio così avanzato della malattia rispetto al quale è difficile immaginare un possibile intervento. Angeleri in questo caso si conforma a un livello di descrizione molto banale e povero di implicazioni pratiche, che è quello dominante nei manuali fino ai giorni nostri. Riconoscere la peste americana a questo livello di avanzamento è come affermare che un uomo è in cattivo stato di salute dall’odore di putrefazione che emana!

Questa descrizione della sintomatologia è tanto più inadeguata in quanto egli propone (ricordiamo, siamo negli anni 30-40) un criterio di intervento molto semplicistico: “Se all’inizio dell’infezione pestifera noi veniamo ad eliminare il miele ultimo importato nel nido vicino alla covata, e le poche celle di covata infette, la colonia è salva”. Un intervento che presupporrebbe invece una diagnosi tempestiva e precoce (la quale a sua volta presuppone una visita regolare dei nidi), per l’identificazione del delicato momento in cui del miele infetto di recente importazione, sistemato accanto alla covata, comincerebbe a infettare le larve. Senza addentrarci nei dettagli dell’intera procedura, piuttosto macchinosi, vogliamo evidenziare il pregiudizio di base che informa le sue indicazioni: “Non si deve credere che la peste americana sia così diffusiva come il fuoco che basta toccarlo per esserne scottati. Se vi è della gente che vive per decenni con dei tubercolotici senza venire intaccata da questa terribile malattia, e così si deve dire della peste, quando si usano i debiti riguardi”. Naturalmente don Giacomo si trova a doversi destreggiare tra la prescrizione di togliere solo la covata infetta e il miele più sospetto e quella, assai più rigorosa, di disinfettare accuratamente gli strumenti, così come tra una visione della malattia come punto d’arrivo di famiglie indebolite o come invece acquisizione di famiglie forti e inclini al saccheggio. Egli non riesce a evitare che le sue affermazioni appaiano contradditorie e non le elabora in un discorso più complesso che entrambe le contenga e giustifichi.

Alla tradizionale “cura della fame”, che secondo Angeleri indebolirebbe ulteriormente le api, egli oppone una “cura del miele sano”, o cura “ricostituente” con miele o sciroppo che verrebbe a sostituirsi al miele infetto. E questo è sicuramente un elemento di novità.
La distruzione col fuoco gli appare come una resa a buon mercato, o come l’unica possibile soluzione per apicoltori inesperti. Non dobbiamo dimenticare che Angeleri fu sempre in costante polemica con la legge del 1925 e gli “esperti apistici” che essa prevedeva: egli sostiene che questi esperti, per giustificare la propria esistenza di controllori della salute degli alveari stipendiati dalle organizzazioni degli apicoltori, avrebbero tutto l’interesse a inventarsi o esagerare malattie. E sarebbero d’altra parte destinati a proporre, con l’eliminazione tramite il fuoco, soluzioni da inesperti, incapaci di procedure più complesse, quali quelle da lui proposte. Di fatto, l’alternativa agli esperti apistici dipendenti dai Consorzi Obbligatori previsti dalla legge, era di consegnare la salute degli alveari ai veterinari. Stiamo ancora oggi pagando il prezzo di questa attribuzione di competenza a pubblici ufficiali che, anche qualora ricevano una preparazione teorica e in piccola parte anche pratica, difficilmente sono in grado di padroneggiare -salvo rare eccezioni- l’intimità con gli alveari che una conoscenza e una capacità di diagnosi tempestiva delle malattie richiede. Soprattutto se si considera l’incredibile livello di variabilità presente nel mondo delle api: solo una lunga approfondita esperienza può permettere di interagire con tale variabilità.
Dal 1944 si diffonde l’uso del sulfatiazolo, a cui don Angeleri aderisce. Una serie di titoli successivi dell’Apicoltore Moderno testimonia la presa sempre maggiore che il nuovo prodotto ebbe su di lui e sull’apicoltura italiana in generale: ” Verso la scoperta del rimedio contro la peste americana” (1946),”La peste americana debellata?- Progressi americani” (1947), fino al trionfale “La peste americana si vince col solfathiazol- Gli oppositori annaspano nel vuoto” (1949), articolo in fondo al quale alcune righe avvertono che “per la cura preventiva e curativa della, peste americana, (è possibile) chiedere la pastiglia di solfathiazol alla nostra Amministrazione”: è l'”americanina”, come verrà familiarmente chiamata dagli apicoltori piemontesi fino alla fine degli anni 70.

Angeleri prende atto della problematica legata all’essere il sulfatiazolo soltanto batteriostatico e incapace di agire sulle spore del bacillus larvae (“La peste americana è guarita o soltanto mascherata?” ( L’Apicoltore Moderno 12/1947), ma scioglie il nodo attribuendo questa problematica alle fisime di “teorici”. Lui si schiera, secondo una vieta retorica, coi “pratici” che, sulla base peraltro di un’esperienza di soli pochi anni, sostengono che il sulfatiazolo, batteriostatico o sporigeno che sia, comunque funziona. Egli fa sue le parole dell’americano Haseman “Non dovete nemmeno preoccuparvi se leggete o sentite che qualcuno, ritenuto competente, dica che il sulfathiazole non è efficace nella cura della peste americana: perché, ricordatevi, che il calabrone non avrebbe mai osato imparare a volare se avesse ascoltato solo le teorie degli specialisti aeronautici degli U.S.A.”. Questa presa di posizione antiteorica fà sì che, pur prendendo atto della problematica sul tipo selettivo di efficacia dei sulfamidici, se ne esca poi con veri e propri errori di formulazione. Nel 1947 scrive infatti: “La peste americana è vinta; e il sulfathiazol è la medicina specifica per combatterne ed ucciderne i bacilli e le spore” (L’apicoltore Moderno, 12).
Nel 1955 esce “Cinquant’anni con le api e gli apicoltori”, che raccoglie l’insieme dell’esperienza di Don Angeleri. Ai rimedi per la peste americana sono dedicate due sole paginette, con uno stile asciutto. Si propone un’alternativa: o una cura tradizionale (che viene definita “un trattamento quasi sicuro”), e cioè la sua versione della messa a sciame, prevedendo però questa volta la distruzione completa per gli alveari troppo infetti. O i “metodi nuovi”, e qui don Giacomo cede la parola all’americano Haseman per una sommaria illustrazione dei pregi del sulfatiazolo (“Oggi questo rimedio è usato in tutto il mondo con successo”, commenta solo alla fine).

Per concludere, mentre per altri aspetti abbiamo trovato don Angeleri estremamente innovativo, il suo atteggiamento sulla peste americana presenta una serie di limiti fino ad arrivare a veri e propri errori, sia nel periodo precedente alla comparsa sulla scena dei sulfamidici, sia dal 1946 in poi.
Vista l’estrema attualità del dibattito sull’uso di antibiotici e sulla possibilità di una lotta non farmacologica alla peste americana, è allora opportuno esaminare le radici storiche di convinzioni e pregiudizi a tutt’oggi molto diffusi, per potercene meglio staccare. Vista l’incredibile popolarità di don Angeleri in Piemonte, non dubitiamo che anche i suoi limiti ed errori abbiano avuto e tuttora abbiano grossa diffusione, ed è dunque importante sottoporli a vaglio critico.

Nel segno della discontinuità: gli eredi di Don Angeleri all'”Apicoltore Moderno”

Col passaggio dell’Apicoltore Moderno all’Istituto di Apicoltura dell’Università di Torino, sono proprio dei “teorici” a dover prendere una posizione sulla peste americana che dia un orientamento all’apicoltura. I ricercatori e docenti dell’Istituto lo fanno ponendosi in discontinuità con il loro predecessore, secondo una linea rigorosa e probabilmente agli inizi assai impopolare, ma che oggi rivela compiutamente la sua attualità.

1976: “Le avversità dell’alveare dovute a nemici e a malattie sono numerose, ma soltanto la peste americana continua ad essere temibile dovunque. Questa specifica malattia della covata fa sciupare fiumi di parole e di denaro. Le resistentissime spore del suo agente patogeno (Bacillus Larvae) costituiranno una minaccia costante per l’apicoltura finchè si tenterà di contrastarle con farmaci: sulfamidici, antibiotici, ecc. Anche altri mezzi di lotta, magari efficacissimi dai punti di vista teorico e sperimentale, in pratica sono destinati a fallire se non si considera che il rimedio definitivo contro la peste americana può avvenire soltanto con la soppressione di tutti i focolai di B.Larvae presenti negli areali apicoli da risanare.
Distruzione di tutto il materiale apicolo infetto (cioè ospitante le tremende spore) e successiva conduzione dell’alveare soltanto da parte di apicoltori degni di tale qualifica dovrebbero consentire di eliminare rapidamente e per sempre la peste americana da tutti gli areali apicoli ancora coinvolti. Per realizzare questa conquista, teoricamente molto meno impegnativa di quella che ha portato alla eliminazione della malaria in Italia, è però necessario adottare provvedimenti impopolari. Non si tratta soltanto di sopprimere materiale apicolo infetto, arnie comprese, dato il pubblico pericolo per l’apicoltura costituito dalle persistenti spore (capaci di germinare perfino dopo essere rimaste quiescenti per decenni in alveari abbandonati);occorre anche avere il coraggio di dire con chiarezza che l’apicoltore responsabile della diffusione della peste dev’essere messo in condizioni di non nuocere ulteriormente all’apicoltura”.

Carlo Vidano, L’apicoltore moderno 67

1980: “(I farmaci ),quando vengono impiegati a scopo terapeutico in alveari ammalati, eliminano solamente i sintomi della malattia, ma non sono in grado di sradicarla; se invece sono utilizzati a scopo preventivo in alveari sani, è indispensabile mantenere all’interno degli alveari, per tutto il periodo in cui è presente covata, un livello di principio attivo sufficiente a non consentire la germinazione delle spore: in queste condizioni, la continua presenza di farmaci all’interno dell’alveare conduce alla contaminazione, più o meno forte, del miele (campioni di miele contenenti residui di sulfatiazolo o di antibiotici sono stati a più riprese individuati tanto all’estero quanto in Italia) e allo sviluppo di ceppi di B.Larvae resistenti al trattamento, per controllare i quali sono necessarie dosi sempre crescenti di medicamenti. La dose consigliata per il trattamento mediante sulfatiazolo era infatti, verso il1950, di0,5 g/l di sciroppozuccherino al 50%, mentre oggi è di 3 g/l e non è infrequente l’impiego di quantitativi ancora superiori”.

Aulo Manino e Augusto Patetta, L’apicoltore moderno 71

1983: “Purtroppo i metodi di cura delle malattie dell’alveare non progredirono con la stessa rapidità delle conoscenze biologiche. L’applicazione delle moderne tecniche apicole, spesso collegate a precise norme di igiene dell’alveare, consentì comunque di limitare gli effetti negativi della maggior parte dei fenomeni patologici. Gli apicoltori continuarono però ad essere quasi indifesi nei confronti delle malattie più gravi ed in particolare nei confronti della peste americana. Una nuova era sembrò iniziare con la dimostrazione dell’efficacia verso B. Larvae del sulfatiazolo sodico (Haseman e Childers, 1944) e dell’ossitetraciclina (Gochnaner, 1951).Il mondo apicolo accolse con entusiasmo questi nuovi medicamenti e rapidamente si diffuse l’abitudine di somministrarli a tutti gli alveari con le nutrizioni autunnali e primaverili per prevenire l’agente della malattia.
Oggi,dopo quasi quaranta anni di impiego spesso smodato di sulfamidici e antibiotici, si deve purtroppo constatare che la peste americana non è stata affatto debellata e che, al contrario, essa è presente in molti areali con incidenze superiori a quelle di un tempo. Le ragioni di questo fallimento sono sovente attribuite alla comparsa di ceppi resistenti del batterio, ma devono essere ricercate soprattutto nelle modalità di azione di questi chemioterapici. Si tratta, infatti, di batteriostatici e non di battericidi: essi cioè bloccano lo sviluppo di B. Larvae, ma non ne uccidono le spore. Gli apicoltori, che utilizzano la tecnica della cura preventiva, trasformano i loro alveari in “portatori sani” della malattia. In essi infatti, sebbene non compaiano i sintomi della peste americana, possono essere presenti spore vitali, che sono in grado di trasmettere l’infezione ad altri alveari non trattati. Se accanto a questi motivi si considerano anche i non trascurabili rischi di inquinamento del miele, si comprende perché viene da tempo indicata l’opportunità di adottare nuove strategie di lotta basate sulla distruzione con il fuoco degli alveari e soprattutto di una più efficace organizzazione degli apicoltori e dei servizi sanitari”.

Franco Marletto, L’apicoltore moderno 74

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