Storia

Aulo Manino – Istituto di Apicoltura Torino

 

|  L’istituto di Apicoltura di Torino attraverso la biografia di alcuni protagonisti: Aulo Manino

a cura di Paolo Faccioli, febbraio 2007

Abbiamo considerato che nella storia dell’apicoltura piemontese entrasse di diritto quella parte del mondo della ricerca che alle api, alle loro tecniche di allevamento e problemi, si è dedicata. Anche per un’esigenza di riuscire a includere l’apicoltura in un orizzonte più vasto di quello strettamente aziendale: un orizzonte in cui si producono, oltre che un approfondirsi e arricchirsi delle conoscenze e una verifica delle tecniche, anche rapporti umani, condivisione di interessi e passioni.
Anche se i rapporti tra ricerca e produzione, in Italia così come in Piemonte, hanno spesso risentito di uno scollamento strutturale, come qui testimonia il Prof. Manino, la vita degli apicoltori e quella degli universitari, oltre che quella degli universitari con le api, hanno trovato comunque modo di intrecciarsi. C’è chi, come Carlo Vidano e Franco Marletto, hanno partecipato con vero e proprio attivismo alla crescita dell’apicoltura moderna, e chi, come Manino, ha scelto di “fare un passo di lato” e di porsi come semplice ricercatore. Questo non gli ha impedito di continuare a essere un punto di riferimento insostituibile grazie alla sua esperienza di ricerca, alla capacità di essere una incredibile banca dati vivente, e alla sua personale disponibilità. Il problema è perché, da parte del nostro settore, si attinga ancora così poco a questa disponibilità e a questa conoscenza.
Il Prof. Manino, insieme con il Prof. Patetta e la Prof.ssa Ferrazzi, costituisce inoltre una memoria storica in grado spesso di restituirci il senso dimenticato di certe direzioni prese o di testimoniarci certe occasioni mancate. Il loro vissuto può inoltre restituire quei colori che gli eventi possono rischiare di perdere in una nuda ricostruzione di dati.
La maggior parte dei tecnici attuali di Aspromiele o si sono laureati o hanno comunque frequentato i corsi all’Istituto di Torino, e sono proprio alcuni di loro a contribuire a colmare quello scollamento tra ricerca e pratica, a cui siamo solo parzialmente condannati.

il prof. Manino nell'apiario del DiVaPra, a Grugliasco - per  cortesia del DiVaPra-Università di Torino

E’ per un fortunato caso che la vita del Professor Aulo Manino si è legata ed è rimasta associata – ormai da quasi quarant’anni – al mondo delle api. Un caso a cui si è aggiunta quella carica di entusiasmo davvero unica che riusciva a trasmettere il Professor Carlo Vidano, all’epoca titolare della cattedra di Apicoltura all’Università di Torino, e che non solo i suoi colleghi studiosi e i suoi allievi, ma anche tantissimi apicoltori oggi anziani, ricordano con stima e affetto. Di famiglia ormai inurbata a Torino da due generazioni, il giovane Aulo aveva sempre coltivato un interesse per la natura e la campagna, che l’aveva spinto a iscriversi alla facoltà di Agraria. Lì avrebbe potuto dare uno sbocco anche pratico e applicativo al suo interesse naturalistico. Ma non era nei suoi programmi di occuparsi di apicoltura, essendo se mai orientato verso il settore vinicolo ed enologico. Per semplice curiosità, aderì all’invito di un compagno di studi di assistere una lezione del Professor Vidano. Rimase affascinato dall’argomento, che era l’importanza delle api nell’impollinazione. E chiese a Vidano di fare la Tesi di Laurea con lui. Era il 1970.

La ricerca sulla caratterizzazione dei mieli
Il primo lavoro di Manino riguarda un ambito che oggi ha assunto un’ importanza primaria, ma che allora era un’operazione pionieristica: la caratterizzazione dei mieli. L’impulso a questa ricerca nasceva dalla pubblicazione, a fine anni ‘60, della prima normativa europea sul miele. La FAO e l’Organizzazione Mondiale della Sanità avevano fissato una norma regionale europea i cui contenuti furono poi trasferiti nella prima normativa europea. Non era infatti stato possibile trovare un accordo a livello internazionale sui parametri del miele. La prima direttiva dell’Unione Europea, uscita qualche anno dopo, fu a sua volta molto lentamente integrata nella normativa italiana..
Un contrasto si era manifestato tra l’approccio degli Stati Uniti –in genere propensi a considerare il miele come semplicemente miele- e quello di Germania e Francia (la prima soprattutto), che diedero il via alla categorizzazione dei mieli. La disputa toccava in particolar modo i limiti di HMF: quelli proposti dai tedeschi erano considerati troppo bassi dagli statunitensi. Oggi la presenza di due diversi livelli distingue la normativa OMS mondiale rispetto a quella europea, e la normativa tedesca è ancora più rigorosa di quella europea.
A quell’epoca era già ampiamente sedimentata una consapevolezza del carattere uniflorale di certi mieli, tant’è vero che Domenico Porrini commercializzava già una gamma di ventidue diverse varietà, così come anche Giulio Piana, a cui oggi è dedicato il Premio per i mieli di qualità di Castel San Pietro. Negli anni ’70, a Torino, esisteva già un negozio (che aveva sede in via Gramsci 7, all’angolo di Corso Giulio Cesare), l’A.I.A. (Azienda Italiana di Apicoltura), specializzato nella vendita di mieli uniflorali. Esso raccoglieva l’eredità della “Casa del Buon Miele” il negozio di Don Giacomo Angeleri.
Ma la commercializzazione dei mieli uniflorali era basata fino ad allora su una conoscenza per lo più empirica. Spesso si dava semplicemente per scontato che un miele prodotto in una situazione florale dominante potesse semplicemente attribuirsene il nome. E anche se già esistevano descrizioni empiriche delle caratteristiche organolettiche, si era ancora lungi dal parlare di analisi organolettica vera e propria. Ma le nuove normative imponevano che fosse indicata la fonte principale e che venisse fornita una dimostrazione per evitare frodi sull’origine botanica e soprattutto geografica.
Si sentiva l’esigenza di studi sui mieli italiani, e Vidano entrò a far parte di un gruppo di ricerca che comprendeva, oltre all’Istituto di Torino, L’Istituto Nazionale di Apicoltura di Bologna, l’Università di Perugia e l’Istituto Sperimentale per la Zoologia Agraria di Roma, con la Professoressa Tonini D’Ambrosio.
Il lavoro di Manino aveva pochi precedenti. Alcuni studi erano stati fatti a Bologna e Perugia, ma la novità dell’approccio di Vidano e della Professoressa Ferrazzi fu di unire, all’analisi dei pollini nel miele, un’ indagine sulla flora. A Torino, i soli precedenti erano stati una tesi di laurea sul miele della zona di Pragelato e uno studio sui mieli della Val Chisone, preceduta da uno studio sulla flora mellifera della zona di Pragelato fatto dal Prof: Marletto e dalla Prof.ssa Colla –docente di botanica- valutando anche la quantità di nettare prodotto dalle diverse piante.
La tesi di laurea di Aulo Manino riguardava la robinia, che, insieme ai mieli di montagna, era la produzione regionale più importante e fu scelta, per comodità, la collina di Reaglie, dove aveva sede l’Osservatorio di Apicoltura in quella che era stata la casa di Don Giacomo Angeleri, donata all’Istituto. Si trattò di uno delle prime indagini sul campo della flora mellifera che precede la robinia. L’indagine si estese in seguito all’Astigiano e al Novarese.
Questo lavoro permise a Manino di avere i primi contatti con gli apicoltori, e di incontrare la realtà delle aziende apistiche, come quella del novarese Caligaris, poi trasferitosi in Costa Rica, dello stesso Porrini, e di altri nella zona di Ghemme , del Biellese e di Asti.
Questi apicoltori, e certamente non soltanto per grande stima nei confronti del Prof. Vidano, recepivano e condividevano il senso di quel lavoro. In particolare Porrini, che avendo numerosi contatti a livello internazionale era in grado di conoscere e capire le problematiche in ballo.
Dopo la tesi di Manino ne vennero assegnate altre, per vallate, approfittando delle zone di provenienza dei laureandi per agevolare il loro lavoro sul campo. La melissopalinologia era però vista come marginale rispetto al cuore della ricerca entomologica a cui l’Istituto era votato. In questo influì il fatto che Vidano stesso era passato a insegnare entomologia nel 1976. Questo limitò la prosecuzione di questo filone, che passò principalmente alla Professoressa Ferrazzi. Inoltre l’Istituto, se era attrezzato rispetto sia alle analisi standard (acidità, HMF e diastasi) sia alle gascromatografie, avrebbe dovuto riattrezzarsi rispetto alle nuove tecniche di gascromatografia su colonna capillare o liquida, e così, anche per le velate pressioni dei colleghi a restare in un ambito più entomologico, il lavoro fu limitato.
Una grossa parte era stata comunque svolta e fu completata dai colleghi di Roma, che iniziarono la sistematizzazione del patrimonio di dati.

La ricerca sull’impollinazione
Dopo essersi laureato, nel novembre del 1976, Manino vinse una borsa di studio del CNR per continuare il lavoro sul miele. Nel frattempo era stato riattivato, dopo una lunga interruzione, un corso di specializzazione in viticoltura ed enologia per l’anno accademico 76-77. Manino che aveva appena finito il servizio militare, vi si iscrisse. La specializzazione prevedeva una tesi ed egli cercò di mettere insieme i suoi due principali filoni di interesse –quello apistico e quello enologico- occupandosi di impollinazione della vite.
Nel ’75, in Piemonte c’era stato un drammatico episodio di avvelenamento per trattamenti contro la tignola della vite in corso di fioritura. Se ne erano occupati Vidano, Marletto e la Ferrazzi. Erano morte più di cinquecento famiglie nella zona del Roero, ed erano rimasti coinvolti pesantemente l’apicoltura Brezzo e una serie di apicolture di minore dimensione. Era stato accertato che le api morivano perché ritornavano all’alveare con polline di vite che conteneva residui di Carbaryl. Questo aveva tra l’altro messo in evidenza che le api potevano frequentare anche la vite per l’approvvigionamento di polline, un fatto all’epoca poco conosciuto. Un caso analogo era accaduto pochi anni prima in Germania, a Friburgo, sede dove era attivo Gunther Vorwohl, uno dei padri della melissopanlinologia. Anche lui aveva dimostrato che le api frequentavano i fiori della vite: qualche volta, appunto, con esiti letali. In quell’occasione, anzi, si rilevò uno dei record di distanza raggiunta delle api rispetto al loro alveare, in quanto i vigneti da cui si erano avvelenate erano a una distanza di 7 chilomeri (una distanza maggiore –13 chilometri-era stata riscontrata per l’approvvigionamento di acqua in Arizona). il prof. Manino - a sinistra in giallo - con il dott. Marco    Porporato e due allievi del Corso di Apicoltura - per cortesia del    DiVaPra-Università di Torino
Sull’onda di quella circostanza Manino ebbe modo di conoscere Gervasio Brezzo, che presentò ai ricercatori dell’Istituto un viticoltore suo amico, disponibile a lasciar ingabbiare le piante di vite per poter osservare cosa succedeva in assenza di impollinazione. La vite in genere è una pianta autofertile, ma una modesta influenza delle api è stata comunque riscontrata, anche se non così vistosa da giustificare un servizio di impollinazione. Era il ’77, e Manino lo ricorda come un’annata disgraziata, estremamente piovosa, rimasta nella memoria degli intenditori di vino come quella in cui il Barolo non fu prodotto, ma venne vinificato come Nebbiolo.
Ma nonostante la piovosità, fu possibile riscontrare perlomeno una leggera differenza tra piante ingabbiate e piante esposte all’azione delle api.
Il senso di questo tipo di lavoro inizialmente non era recepito dagli apicoltori quanto lo era invece la tematica degli avvelenamenti. Solo negli anni ‘80 l’impollinazione ha cominciato a costituire un argomento utilizzabile dagli apicoltori nei confronti di altre categorie di produttori agricoli. Ma il Professor Vidano fin dal 1972 aveva organizzato, nell’ambito di Apimondia, un simposio internazionale sulla flora mellifera e l’impollinazione a Torino. Vi avevano partecipato, oltre che ricercatori da tutto il mondo, anche diversi apicoltori, ma era stata abbastanza una novità. E rispetto all’ambito apistico Vidano, che insisteva molto su questo tema, appariva ancora una voce solitaria. Peraltro già erano stati organizzati i primi servizi di impollinazione, soprattutto in zone di frutticoltura intensiva come il Bolognese e il Modenese e, in Piemonte,nel Saluzzese. Un compagno di università di Manino seguito da Marletto stava facendo una tesi sull’impollinazione del pesco. Seguirono dei lavori sull’impollinazione del kiwi.
Nell’ 82 vennero ripresi i lavori sulla impollinazione della vite nell’ambito di una tesi, poi furono i colleghi di Portici a proseguire su questa direttrice, così che oggi si ha un quadro più preciso dei rapporti tra ape e vite.
Un lavoro fu dedicato agli ibridi di castagno cino-giapponesi , fino al momento in cui fu riscontrata la maggiore produttività del nostro castagno, che è autofertile.
Ulteriori lavori riguardarono il kiwi e il susino giapponese, ma il clima del Piemonte si rivelò troppo freddo per quest’ultimo: la gelata di quell’ anno e la grandinata dell’anno successivo lo confermarono.
Infine fu dedicata attenzione alle oleaginose, nel periodo del “boom” di questo tipo di piantagioni.

“Tutti piantavano girasole e colza per prendere i contributi, poi i contributi sono spariti -ricorda Manino- e nessuno in Piemonte pianta più girasole. Purtroppo l’agricoltura vive di contributi e il risultato è che gli aspetti tecnici passano in secondo piano. Prima si dovrebbe pensare a qualche cosa che sia coerente con la politica comunitaria, e poi verificare se è tecnicamente valido. Quando studiavo io, l’idea era che l’agricoltura fosse un’attività produttiva e che lo scopo delle scienze agrarie e degli agronomi fosse di migliorare le produzioni. Oggi fondamentalmente l’agricoltura vive di contributi comunitari e lo scopo della professione di agronomo è ottimizzarne l’acquisizione. Poi c’è l’argomento che vede l’ agricoltura come mantenimento del paesaggio, e che ne fa un luna park, più che un’ attività produttiva. Anche le trasmissioni televisive di argomento agricolo -come Linea Verde- sono molto cambiate: non sono di agronomia, di come si fa a produrre, ma turistico-gastronomiche. In questo sono un po’antiquato: per me l’ agricoltura dovrebbe servire per produrre, e non per fare spettacolo”

I lavori sugli apoidei selvatici
All’interno di un grosso progetto di ricerca in agricoltura finanziato dal CNR, e comparso negli anni 80, era stata inserita la domesticazione di impollinatori selvatici , con la possibilità di ottenere fondi per questo tipo di ricerca. L’idea veniva dal fatto che in America avevano trovato modo di allevare il megachile rotundata e la nomia melanderi per l’impollinazione dell’erba medica.
Ma ci si rese subito conto che in Italia si era più indietro, e che prima di tentare di allevare impollinatori selvatici occorreva identificare quelli presenti in Italia e approfondire una conoscenza che era ai suoi inizi. Sui megachilidi si specializzò il Prof. Pinzauti, dell’Università di Pisa, che sviluppò bene l’allevamento delle osmie: esse prediligono climi più caldi che non quello piemontese, come in genere gli apoidei che nidificano nei legni forati. In Piemonte, dove si trovano soprattutto apoidei che nidificano nel terreno, è riuscito meglio allevare i bombi, facendo anche prove di impollinazione sul pomodoro. In seguito si erano sviluppati gli allevamenti industriali di bombi in Belgio e Olanda (in Italia ci si provò solo l’Agriapi in Campania). Si capì che non è difficile allevare soprattutto il bombus terrestris, ma all’Istituto di Torino non si è mai arrivati ad allevare più di qualche decina di famiglie, soprattutto per un problema di costi: il materiale in cartone piegato e di plastica usato nei grandi allevamenti richiede una lavorazione industriale per piegare e fustellare il cartone o stampare la plastica. Il materiale utilizzato a Torino per la ricerca era invece in legno, inchiodato manualmente: oltre al problema dei costi il materiale industriale era un materiale usa e getta, che preveniva il possibile accumulo malattie. Legno e rete metallica erano adatti solo per piccoli allevamenti. L’altro problema era l’alimentazione: all’Istituto occorreva un’ora tutti i giorni per alimentare dieci colonie, mentre nei grandi allevamenti il processo è automatizzato. Dunque, una volta capiti i principi dell’allevamento, questo filone di lavoro si è fermato, e in seguito sono state acquistate le cassette dai produttori per fare delle prove sia sull’ impollinazione sia sull’effetto di certi insetticidi sui bombi, un lavoro recente.

Genetica
Un lavoro di identificazione delle razze, in collaborazione con colleghi della Facoltà di Scienze, a Torino, partì nell’80-81. In quegli anni Manino aveva deciso di interessarsi di selezione, avendo anche lavorato con l’Associazione Allevatori. Osservando il miglioramento genetico dei bovini, aveva pensato di estendere questo campo di osservazione alle api.
In Piemonte, come regione di confine, uno dei problemi importanti era di verificare che chi producesse regine potesse essere sicuro di non diffondere un’ape che non fosse ligustica.
All’epoca la tecnica principale per il riconoscimento era l’analisi morfometrica, ma si stavano sviluppando anche tecniche biochimiche,
Un ricercatore francese, Cornuet, capitò in Italia per procurarsi dei campioni e prese contatto con apicoltori della costa ligure, che è altra zona di passaggio tra ape mellifera e ape ligustica. All’epoca il dottor Ugo, funzionario della Camera di Commercio di Savona, apicoltore e promotore della Cooperativa Apiriviera, era in stretti contatti coi ricercatori torinesi. Manino raggiunse il Cornuet, e cominciò a interessarsi alle tecniche di elettroforesi.
Con una collaboratrice, la dott.ssa Celebrano, provarono la tecnica e iniziarono un filone di ricerca, prima dei marcatori per definire le varie sottospecie, e poi sulla genetica delle popolazioni. In seguito le tecniche cambiarono, basandosi non più sugli enzimi, ma sul DNA. Alla fine la Celebrano si dedicò allo studio del DNA. All’Istituto non proseguirono su quella direttrice ancora una volta per problemi di costi, anche se Manino ha continuato a fornire campioni e a interessarsi al corso dei lavori. Qualche anno fa la vecchia tecnica dell’elettroforesi è stata rispolverata per riuscire a rendere confrontabili dati nuovi con dati vecchi che con quella tecnica erano stati ottenuti.

“Dopo l’arrivo della varroa c’è stata una diminuzione di differenze genetiche in Italia del Sud e Sicilia. I ceppi locali, danneggiati, sono stati sostituiti da materiale proveniente dall’Italia del Nord, soprattutto da Emilia e Toscana. Oggi c’è più dominanza di ligustica bolognese rispetto a una trentina di anni fa, in cui pure c’era un notevole commercio di regine. Ricordo che a quell’epoca Francesco Panella, che aveva una base di lavoro in Calabria, mi chiese se non fosse imprudente portare al sud le nostre api per fare regine e riportarle in Piemonte. Ma anche se le differenze erano notevoli, non si può dire che questo scambio tra Calabria e Piemonte fosse imprudente. Tuttavia, sulla base degli stessi dati, un ricercatore bulgaro ha “creato” la mellifica rhodonica che, rispetto alle contigue macedonica e carnica, era meno diversa di quanto fossero le api calabresi da quelle del Norditalia. Differenze vistose, ma non tali da giustificare la creazione di una sottospecie. Oggi c’è un’uniformazione molto forte e molto materiale di provenienza estera: anche quando si tratta di ligustica, non è ligustica italiana: si è perso in biodiversità”.

Uno dei più recenti lavori con cui Manino si è mantenuto in contatto con questo suo vecchio filone di ricerca è il capitolo “Genetica di Apis Mellifera” nel volume curato da Marco Lodesani “Il miglioramento genetico dell’ape regina”.

I lavori sulla varroa
La varroa arrivò in Piemonte più tardi che in altre regioni d’Italia. Non volendo anticipare il suo arrivo, sia pure a scopi di ricerca, come già era accaduto in Germania, l’Istituto di Torino, in collaborazione con l’Istituto per la Difesa delle Piante dell’Università di Udine, si limitò inizialmente a un lavoro volto a provare la tossicità, sulle api, di principi attivi acaricidi che sarebbero potuti essere in seguito utilizzati contro la varroa. Lo svolse Manino insieme con Patetta. Vennero utilizzate le tecniche già precedentemente messe a punto per provare la tossicità sulle api dei prodotti antiparassitari agricoli. Furono provati prodotti già in uso come Coumaphos. Amitraz, Malathion, Fluvalinate e altri che –come Dicophor, proposto nei primi tempi, e Chinometionato, non si sono poi rivelati utili nella lotta alla varroa. Il Fluvalinate venne sperimentato prima che venisse commercializzato l’Apistan. In Francia veniva già largamente utilizzato il Klartan, che in Italia non era in commercio, ma veniva contrabbandato con forti ricavi da chi poi lo metteva in circolazione. Eppure anche in Italia c’era un prodotto a base di Fluvalinate, il Mavrik. All’Istituto venne usato il prodotto “nazionale”, che si poteva avere più facilmente e per cifre irrisorie, ma in ambiente apistico rimase una predilezione, intrisa di fascino del proibito, per il Klartan.
Un capitolo diverso riguarda la resistenza agli acaricidi, il Fluvalinate e il Coumaphos. Sul secondo venne attivato un lavoro su sollecitazione dell’Associazione Agripiemonte Miele, al primo venne dedicata una tesi di laurea in Valle d’Aosta.
Poi riadattando le tecniche, vennero fatte delle prove di avvelenamento sui bombi, mentre oggi sono in corso prove di impatto sul bacillus thuringiensis ( che potrebbero rivelarsi molto utili qualora l’aethina tumida arrivasse anche in Europa).
E’ del 1988-89 uno studio svolto da Manino in collaborazione con Patetta e Marletto sugli effetti della periodica asportazione di covata maschile –con l’uso di telaio a tre settori- nella lotta alla varroa, studio che venne replicato anche nei due anni successivi. Esso mostra come questa tecnica consenta l’eliminazione consistente di una parte della popolazione di varroa, pur non essendo risolutivo ed esigendo di essere inserito in un programma di lotta integrata.

Storia dell’apicoltura: una passione
Lo studio di Aulo Manino, “Realtà e prospettive dell’apicoltura piemontese”, che compare tra quelli che compongono il volume “per un Museo dell’Agricoltura in Piemonte-Passato e Presente dell’Apicoltura Subalpina” (Torino, 1982), è in realtà uno dei meno “storici” di questa raccolta. Ma Manino conservò sempre una curiosità per l’aspetto storico dell’apicoltura.
L’Apicoltore Moderno aveva iniziato, fin dai tempi di don Angeleri, la tradizione di inserire, nel numero di dicembre, una pagina con gli auguri natalizi. Il Professor Marletto aveva poi cominciato a corredarli con immagini a carattere storico di vecchie attrezzature apistiche, come lo smelatore di Hruska, con una breve spiegazione.
Nel 1990, in occasione di un simposio di Apimondia che si sarebbe svolto a Spalato, in Dalmazia, l’anno successivo, Marletto pubblicò un ritratto biografico di Anton Jansa, un apicoltore sloveno che, alla corte di Maria Teresa d’Austria, contribuì allo sviluppo delle conoscenze soprattutto sui voli di fecondazione.
Per gli anni successivi, Manino realizzò una sua idea di fare gli auguri di buon anno raccontando la vita di apicoltori celebri del passato, alternandoli ogni tanto a quelle di scienziati. Qualcosa di diverso rispetto a quello che la rivista abitualmente proponeva.
Così nel 1991 uscì una biografia del Barone August Von Berlepsch, uno dei fondatori dell’ apicoltura moderna; nel 1992 di Jan Swammerdam, il naturalista olandese che grazie al perfezionamento delle tecniche di microscopia fornì la prima conoscenza dell’anatomia dell’ape; nel 1993 di Lorenzo Lorraine Langstroth, l’ideatore del moderno telaio mobile; nel 1994 di Jan Dzierzon, apicoltore, sperimentatore e divulgatore, a cui si deve la teoria della partenogenesi; nel 1995 di Francois Huber, il naturalista cieco che con l’aiuto di un domestico diede un contributo fondamentale alla conoscenza della fecondazione delle regine e delle possibilità di allevarle; nel 1996 di Francesco Stelluti, che fu autore di uno dei primi trattati sulle api. Manino aveva in programma di dedicare delle pagine a Root, divulgatore e fondatore di una delle più popolari riviste di apicoltura, e Doolittle, che inventò la tecnica dell’innesto. Ma la rivista chiuse i battenti. Questo filone era collegato all’esigenza di produrre articoli più divulgativi e leggibili in un periodo in cui già si stava manifestando tra gli apicoltori una certa disaffezione alla rivista per il suo taglio, percepito come troppo scientifico.
Una esauriente ricerca su tutte le riviste apistiche uscite in Italia, realizzata con il collega Augusto Patetta, e in cui fu determinante la partecipazione del Dott.Marco Accorti, fu presentata al congresso del centenario di Apimondia ad Anversa (1997).

L’ “Apicoltore Moderno
La Rivista “L’Apicoltore Moderno”, il più antico periodico di apicoltura edito in Italia, era nato nel 1910 a Torino. Fu diretto inizialmente dal prof. Carlo Passerini fino al 1920. Dal 1921 la direzione passòa don Giacomo Angeleri, fino alla sua morte, avvenuta nel 1957. Don Angeleri accentuò l’ indirizzo pratico della rivista. La sua opera fu proseguita dalla sorella Maria Grada, che, nel 1969, creò un’istituzione dedicata al fratello in convenzione con l’Università di Torino, di cui la rivista era parte. Alla morte di lei, nel 1974, la direzione passò al Prof. Carlo Vidano, alla cui morte, nel 1989, successe il prof. Franco Marletto.
Fin dal 1971, a fianco dei tradizionali articoli a carattere pratico, cominciano a comparire anche ricerche e articoli a carattere scientifico di membri dell’Istituto di Bachicoltura e Apicoltura dell’Università di Torino, che andranno occupando uno spazio sempre maggiore nell’economia della rivista. Mensile fino al 1973, L’Apicoltore Moderno divenne bimestrale dal 1974 al 1994 e trimestrale dal 1997, anno in cui sospese le pubblicazioni.
Nel 2003 uscì l’ultimo numero, datato dicembre 1997, dedicato principalmente alla figura di Franco Marletto.

Il vero motivo della fine dell’Apicoltore Moderno- secondo il Professor Manino- sta nel venir meno degli abbonati. Negli anni 90 si assistette a un pullulare di riviste di apicoltura, nate soprattutto dalle diverse associazioni, che è documentato proprio dallo studio sui periodici apistici di Manino e Patetta. Poi ci fu una flessione, che vide la sparizione di molte riviste o l’accorpamento tra alcune di loro: L’Apis, per esempio, nacque dalla fusione di sei riviste diverse.

“La nostra rivista è sempre stata considerata difficile da leggere, perché noi ci pubblicavamo i lavori scientifici, pur cercando di scrivere in maniera comprensibile: tra una parola scientifica e una normale cercavamo di scegliere quella normale. Per me personalmente è stato molto utile per riuscire a fare delle lezioni comprensibili. Ho scoperto che è inutile usare paroloni scientifici quando ci sono parole che esprimono esattamente lo stesso concetto.
Quando faccio lezione cerco, se posso, di evitare i termini scientifici, anche se non sempre è possibile. Vidano ci incoraggiava molto a scrivere in un modo comprensibile agli apicoltori.
Nonostante questo sforzo, un lavoro sperimentale è a volte astruso per chi non è del mestiere.
Di fronte all’uscita, in quel periodo, di riviste con taglio più divulgativo, gli apicoltori ovviamente preferivano quelle”.

Un secondo problema era la puntualità. La rivista, all’Istituto, si faceva quando c’era tempo, ma la priorità era data alla ricerca e alle lezioni: questo tendeva a creare un certo ritardo cronico.
Un terzo altro problema è stato il cambio nella valutazione dell’attività di ricerca: la qualità della produzione scientifica viene infatti sottoposta a valutazione e lo stesso Ministero distribuisce i finanziamenti in base alla qualità accertata della didattica e della ricerca. Ultimamente si è affermato il criterio, di impronta americana, che assegna il valore a una ricerca sulla base della pubblicazione su riviste che si ritiene abbiano un impact factor, con l’idea che, se un lavoro è citato molto –e dalle riviste giuste- esso sia importante. Per avere impact factor le riviste devono essere in lingua inglese. In campo apistico, solo tre riviste sono riconosciute a questo livello: Apidologie, Journal of Apicoltural Research e American Bee Journal, che pur avendo un taglio per lo più divulgativo, ha un’enorme diffusione. In Italia persino nel campo dell’entomologia non esiste una rivista riconosciuta, ma è in corso uno sforzo congiunto dei vari istituti per puntare al riconoscimento di Redia (Firenze) o del Bulletin of Enthomology (Bologna).
La morte di Marletto nel 1997 rese impensabile la prosecuzione della rivista, la cui eventuale rinascita oggi subirebbe soprattutto la concorrenza di Internet.

Ricercatori e apicoltori: un rapporto non facile
“Sono abbastanza esterno all’ambiente degli apicoltori, io stesso non sono apicoltore. Come Istituto abbiamo rapporti non strettissimi con gli apicoltori. Altre istituzioni, come l’Istituto Nazionale di Apicoltura hanno più rapporti, perché sono istituzionalmente più tenute ad averli. Noi dobbiamo fare ricerca e didattica universitaria. Poi c’è l’Osservatorio.

L’Osservatorio di Apicoltura
L’Osservatorio di Apicoltura nacque nel 1969 in memoria di Don Giacomo Angeleri, da una convenzione tra la sorella di Angeleri, Maria Grada, e l’Università di Torino. Alla morte di Maria Grada Angeleri, nel 1974, vennero formalmente acquisiti all’Osservatorio, oltre alla rivista “L’Apicoltore Moderno”, gli edifici della sede attuale di Reaglie, già dimora di don Giacomo, e quello della stazione alpina da lui creata a Pragelato.
Nell’atto di donazione è detto: “l’Università doterà l’Osservatorio di mezzi e di un organico sufficienti a svolgere un’intensa attività di ricerca, con particolare riguardo a sperimentazioni utili al campo apistico pratico”
La struttura dell’Osservatorio è oggi annessa al Dipartimento per la Valorizzazione delle Produzioni Agricole (DiVaPra) (prima lo era all’Istituto di Apicoltura poi all’Istituto di Entomologia Agraria e Apicoltura, dietro ai cui diversi nomi c’è una sostanziale continuità). E’ annessa all’attività del DiVaPra, ma non ha né un bilancio né un personale proprio. In realtà il personale è stato assegnato dai vari Istituti che si sono succeduti e l’Osservatorio sostanzialmente esiste perché esiste un gruppo di ricerca che si interessa di Apicoltura. L’Università preferisce non creare troppe figure professionali differenziate, quindi ha preferito non attribuire del personale in forza all’Osservatorio.
Attualmente sono in servizio due tecnici che sono parte del DiVaPra e come tali dipendono dal direttore del dipartimento: ad essi è dato incarico di preoccuparsi principalmente degli apiari (uno dei due risiede a Reaglie).

Attraverso il quale abbiamo rapporti, ma non strettissimi. Io personalmente mi sono tenuto un passo indietro rispetto ad altri nei rapporti con gli apicoltori, un po’ perché c’erano Vidano e in seguito Marletto che li tenevano, ma anche per un episodio che è successo tanti anni fa: le critiche rivolte a Marletto perché si impegnava troppo nella politica apicola. Sono critiche che mi sono state riportate da miei compagni di Università, che erano nella Coldiretti. Dicevano che Marletto si occupava troppo di politica apicola, e che avrebbe dovuto essere più professore universitario. Visto che l’impegno di Marletto, che si era sempre molto prodigato, non era apprezzato, io ho evitato di impegnarmi troppo personalmente.
Era l’epoca in cui si parlava della Legge Regionale Piemontese. Il Piemonte è stata una delle ultime regioni a dotarsi di una legge, della quale tuttavia si parlava fin da quando ero studente e che dunque ha avuto una gestazione molto complicata. E in quest’ambito Marletto –che partecipava alla discussione dei vari progetti che man mano comparivano, perché veniva contattato come Osservatorio-, aveva espresso dei pareri anche un po’ critici nei confronti dei progetti portati avanti dalle organizzazioni degli apicoltori. Ognuna di esse ne aveva uno costruito sulle proprie necessità, mentre la Regione voleva qualcosa di più unitario. Marletto si è impegnato per ottenere un progetto che potesse essere condiviso dalle varie associazioni presenti e portato in regione con l’appoggio di tutti. All’epoca c’erano dei veti incrociati tra le varie organizzazioni agricole. E visto che il suo sforzo veniva considerato un eccessivo impegno nella politica mi sono detto: Chi vuol fare il politico faccia il politico, io faccio il ricercatore. Il punto di maggior attrito era il problema del censimento apistico, dell’obbligo di denuncia degli alveari. Giustamente la Regione diceva: noi dobbiamo fare una legge a favore di chi? come facciamo senza una denuncia con cui identificare gli interlocutori? L’obiezione che in privato era stata fatta dai rappresentanti delle associazioni, era che non potevano andare dai loro soci a chiedere la denuncia altrimenti, per dei timori di natura fiscale, li avrebbero abbandonati. La cosa si è sbloccata in seguito grazie alla varroa: quando è uscita la norma generale sull’obbligatorietà della denuncia, e anche la legge piemontese l’ha recepita, le associazioni hanno avuto buon gioco nel dire agli iscritti di denunciare gli alveari. Le critiche erano arrivate a Marletto prima dell’arrivo della varroa .
Marletto impegnava un sacco di tempo, ritagliato dagli impegni di didattica e di ricerca, per cercare un accomodamento, ma questo era interpretato come un eccessivo interesse. E, forse, giustamente: sono i produttori in effetti che si dovrebbero organizzare.

Tra noi e il mondo degli apicoltori c’è sicuramente stato un reciproco riconoscimento, ma non immediato nè diretto. In effetti, dalla ricerca all’applicazione nella pratica, manca una fase di collegamento, che potrebbe essere fatta dall’Osservatorio, se avesse i mezzi per farlo, se no dev’essere fatta dai tecnici delle associazioni. In America esiste questo servizio di divulgazione che crea un rapporto tra ricerca e applicazione .Questo scollamento tra il mondo dell’università e quello della produzione, in Italia, non è un problema dell’apicoltura soltanto, ma dell’agricoltura in generale, e neanche solo dell’agricoltura. E’ uno dei mali che abbiamo nel nostro paese. Quando si parla dei problemi di insufficiente sviluppo dell’Italia, questo deriva, tra le altre cose, anche da questa mancanza di collegamento, perché nessuno l’ha mai veramente ricercato. In America questa fase intermedia c’è, e gli specialisti delle Università americane che fanno ricerca sull’apicoltura, non fanno anche l’applicazione dei risultati della ricerca alla realtà concreta. C’è una categoria di tecnici che in parte dipendono dall’Università, pagati apposta per il lavoro di trasferimento delle conoscenze teoriche alla realtà applicativa. In Italia, io lo vedrei bene nell’ambito dell’università, perché ovviamente sono universitario, ma se partisse dall’ambito dell’apicoltura andrebbe ugualmente bene. In Piemonte oggi si comincia a fare qualcosa. I tecnici delle associazioni fanno questo lavoro, ma è da pochi anni. Il problema c’era già quando studiavo io. Intorno al 73-74 la Regione cominciò a discutere una legge regionale. Bisogna ricordare che le regioni, previste dalla costituzione del ‘48, furono istituite solo nel 70, ( escluse le 5 a statuto speciale). Io nel 70 mi sono iscritto all’Università. Qualche anno dopo ci fu un dibattito a livello politico, che aveva visto coinvolti anche gli studenti, sull’organizzazione dell’assistenza tecnica in apicoltura. Noi eravamo interessati perché poteva dare degli sbocchi professionali per gli studenti di agraria Alla fine la Regione scelse di demandare l’intera attività di assistenza tecnica alle organizzazioni professionali proprio per l’opinione diffusa tra gli agricoltori che l’Università non serve a niente. E’ un’opinione comune forse anche agli altri settori produttivi. Anche mio fratello, che è ingegnere e lavora in ambito privato, ha quest’idea che all’università si perda tempo e si corra dietro alle nuvole. Questa scelta fu in controtendenza rispetto ad altre regioni. Fu anche creato un ente di sviluppo agricolo che ebbe vita breve e poi fu sciolto, anche questo a differenza che in altre regioni. Questa scelta, che poi fu mantenuta negli anni, spiazzò l’Osservatorio. Furono poi organizzati una serie di corsi finanziati dalla regione per assistenti tecnici in agricoltura e ce ne fu uno anche di argomento apistico: fu un corso professionale rivolto a chiunque potesse avere interesse a fare assistenza tecnica. Ma fu organizzato in modo quasi clandestino. Io, che pure ero studente, anche se non ero tutti i giorni presente in Istituto, ne fui informato quando erano già scaduti i termini per partecipare. L’idea era che chi avesse fatto questi corsi sarebbe stato assunto: dunque, “meno siamo meglio è”. Al corso parteciparono Patetta, la Ferrazzi e altri, ma io lo seppi troppo tardi.
Molti grossi apicoltori italiani e stranieri furono invitati, ed era previsto un viaggio di istruzione in Francia, dove a quei tempi l’apicoltura era più avanti che da noi.
Ma il corso non ha avuto esito. E l’unico partecipante a quel corso che abbia mantenuto i rapporti con l’attività apistica è Giuseppe Diale, che è uscito solo di recente da Piemonte Miele, e che allora era studente universitario.
Il fatto che questi corsi di assistenza tecnica in agricoltura fossero aperti anche a persone senza preparazione scolastica specifica fece sì che molti si siano trovati a fare assistenza tecnica senza avere un bagaglio di conoscenze sufficiente e appropriato, e questo ha contribuito, in quegli anni, a non farla apprezzare.
Il Prof Vidano, all’epoca, tentò di fare entrare l’attività di assistenza tecnica tra quelle dell’Osservatorio, visto che aveva organizzato lui questo corso ed era in ottimi rapporti con la Regione: cercò di fare dell’Osservatorio un centro di assistenza tecnica e di divulgazione per l’apicoltura piemontese, con un’ attribuzione di personale e fondi, per coprire il vuoto, che c’era e di cui ci si rendeva già conto, tra ricerca e applicazione. Ma la Regione, appunto, aveva come indirizzo di assegnare tutto alle associazioni professionali.
Venne sì erogato qualche modesto finanziamento per organizzare dei corsi, ma non si riuscì a decollare, mentre in altre regioni, come Friuli e Lombardia, esiste un Laboratorio Apistico Regionale presso l’Università, finanziato dalla Regione.

Noi abbiamo sempre svolto un’assistenza tecnica, ma a livello volontario. Se un apicoltore viene qui con un problema, cerchiamo di aiutarlo. Eventualmente può nascere lo spunto per un progetto di ricerca, per scoprire che ci sono dei problemi che vale la pena di affrontare. La cosa che più facciamo è la diagnosi delle malattie, a esclusione delle virosi, per cui bisognerebbe organizzare tutta una serie di test e per cui non siamo attrezzati. Così il lavoro sugli avvelenamenti è nato dal fatto che Brezzo ha sentito Vidano, e degli interventi sono stati fatti anche per casi meno vistosi. Spunti di ricerca sono nati spesso da questi colloqui coi produttori, così come certe prove di impollinazione sono nate da richieste da parte di frutticoltori.
Dunque lo scollamento in parte è riempito dai tecnici delle associazioni. A livello personale siamo in ottimi rapporti. Se vogliono approfondire qualcosa vengono, la biblioteca è a disposizione, possiamo dare dei consigli per quanto è nelle nostre possibilità.
Piccoli lavori li possiamo mettere in piedi, anche se come Università sono poche le cifre stanziate.
La Regione Piemonte ha capitoli di spesa per finanziare la ricerca in quest’ambito. Attualmente ne abbiamo in atto, in collaborazione con apicoltori o associazioni di apicoltori (uno sugli avvelenamenti, l’altro sulle api igieniche oltre che dei lavori sul miele che segue la Prof. ssa Ferrazzi). Anche le province e le comunità montane hanno dei budget sempre più modesti.
Un passo successivo potrebbe essere di effettuare ricerche finanziate dalla UE, che però devono avere carattere internazionale. Il Piemonte potrebbe avere sinergie coi francesi. In questo caso c’è bisogno di collegarsi ad associazioni e centri di ricerca nell’altro paese. Ma il tutto richiede tanto lavoro preliminare e tante rendicontazioni dopo, tutto sommato per pochi soldi.
Ci fosse un’organizzazione stabile, sarebbe molto meglio. Ma sono ormai trent’anni che è stato deciso che non si doveva fare, in Piemonte”.

Il tempo per aggiornarsi
“Qui noi facciamo di tutto, insegnamo anche entomologia delle derrate alimentari…gli insetti che si mangiano la pasta, i biscotti…la Facoltà ha deciso che aveva interesse a creare un corso di questo tipo e ha chiesto un po’ a me un po’ al Professor Patetta di tenere questo insegnamento. Ma un corso richiede un grosso lavoro di preparazione. Se fosse su un settore su cui uno svolge anche attività di ricerca, si metterebbero insieme le due cose. Ma io mi devo tenere aggiornato sulle tecniche di lotta ai parassiti delle colture per insegnarle, e poi anche sulle tecniche di lotta alla varroa, per sapere cosa sta si sta muovendo. Il che dal mio punto di vista è anche piacevole, perché a me è sempre piaciuto essere informato e studiare: passo molto tempo a leggere libri, riviste, informazioni su internet. Ma è tutto tempo che non dedico a fare attività di ricerca perché poi alla fine il tempo è quello, e tenersi aggiornati è un grosso lavoro, perché bisogna andare a raccogliere le informazioni e avere il tempo di recepirle. Se io potessi insegnare solo apicoltura sarei molto più contento.
Nell’aggiornarmi in apicoltura le mie fonti preferite sono le riviste: quelle internazionali, Apidologie, Journal of Apicultural Research, quando c’era, Bee World, l’American Bee Journal per gli aspetti applicativi, poi, sapendo un po’ di tedesco, un po’ di riviste tedesche e svizzere, Schweizerische Bienzeitung, Die Biene, Bienenzeitung, che sono abbastanza valide, anche se anche nelle riviste tedesche sta scadendo la qualità. Fino a pochi anni fa le riviste tedesche riportavano degli ottimi lavori sperimentali, che oggi finiscono sulle riviste internazionali in inglese. Leggo anche anche riviste francesi soprattutto il bollettino dell’OPIDA che è quello più tecnico. Vida Apicola è interessante, ma non leggo molto bene lo spagnolo e poi fa riferimento ad ambienti più caldi del Piemonte, mentre cose che si leggono sulle riviste svizzere e tedesche si riescono ad applicare anche qui.
Leggo anche le riviste in italiano, abbastanza alla svelta, perchè di solito non ci sono grosse novità. Gli articoli che arrivano sulle riviste in italiano sono di solito su argomenti che sono già stati affrontati sulle riviste internazionali. Le leggo e più o meno mi accorgo che sono cose che ho già letto da un’altra parte. Certo, gli aspetti più specifici dell’apicoltura italiana mi interessano e come, ma l’aggiornamento sulle ricerche scientifiche lo trovo prima in riviste come Apidologie. Da pochi anni c’ è anche Internet, che è una fonte interessantissima di informazioni, soprattutto per le cose lontane. Ci sono dei bellissimi studi fatti in Australia e finanziati dal Ministero dell’Agricoltura così come sono molto belli i lavori fatti in Sudafrica dove hanno un gruppo di studi che lavora sia sulla biologia sulle razze delle api. Hanno coinvolto nel gruppo uno statistico, e hanno un’ottima elaborazione statistica dei dati. Che è una delle cose complicate della ricerca: se non c’è una valutazione dei dati dal punto di vista statistico diventa difficile capire di cosa si sta parlando. E’ un settore difficile della matematica. Quando studiavo io ci è stato fornito solo qualche sprazzo di insegnamento. E molti docenti anziani guardavano la statistica con fastidio, dicendo che eran tutte balle. Oggi invece ai giovani che fanno un dottorato di ricerca vengono fatti dei corsi appositi di statistica. Ma è fondamentale l’analisi statistica nella ricerca scientifica.
Anche in Francia, sempre nel settore dell’identificazione delle razze, hanno prodotto alcuni bellissimi approcci di questo tipo”.

Le foto sono state gentilmente concesse dal DiVaPra-Università di Torino.