Storia

Augusto Patetta – Istituto di Apicoltura Torino

L’Istituto di Apicoltura di Torino attraverso la biografia di alcuni protagonisti: Augusto Patetta.

    Sognando le langhe in Corso Raffello

a cura di Paolo Faccioli,  febbraio 2007

Mi leverò e andrò, ora, andrò a Innisfree,
E costruirò una capanna laggiù, fatta d’argilla e canne,
Nove filari a fave avrò laggiù, un’arnia per le api da miele,
E starò nella radura ronzante d’api.
E avrò un po’ di pace laggiù, che la pace discende goccia a goccia,
Discende dai velami del mattino fin dove canta il grillo;
La mezzanotte laggiù è tutto un luccichìo, il meriggio purpurea incandescenza,
La sera è piena d’ali di fanello.
Mi leverò e andrò, ora, ché sempre notte e giorno
Odo l’acqua del lago lambire con lievi suoni la sponda;
Stando in mezzo alla strada, sui marciapiedi grigi,
La sento nella fonda intimità del cuore.
William Butler Yeats

Coi Frati di Finalpia: i primi passi

Il Prof. Augusto Patetta è ligure, originario di Millesimo. Ed è all’Università di Torino che ebbe il primo contatto col mondo delle api. Dopo l’esame di apicoltura, ormai appassionatosi all’argomento, chiese al Professor Carlo Vidano di fare con lui una sottotesi, che ebbe come argomento il nosema. Era il 1970, ed era appena nato l’Istituto di Apicoltura e Bachicoltura. Visto che Patetta era ligure, Vidano lo stimolò a prendere contatto coi padri benedettini di Finalpìa, dove conobbe per primo Fra Benedetto.
“Fra Benedetto mi raccontò la storia della sua vita come apicoltore. Lui era un frate, ma non era sacerdote. Era arrivato lì perché all’epoca, quando non c’erano tante possibilità in famiglia, si mettevano i figli anche nei conventi. Non aveva quindi una grande vocazione, e dovendo stare lì ha sempre fatto un po’ l’apicoltore. Mi raccontava di un nomadismo fatto con la bicicletta, un’arnia davanti un’arnia dietro, suscitando un certo disappunto nei suoi superiori che poi lo castigavano, facendolo mangiare in silenzio oppure da solo, soprattutto perché quando usciva con queste arnie caricate sulla bicicletta la gente del posto ne rideva, e questo non dava certo lustro al convento, anche se per il convento questa attività costituiva una piccola fonte di guadagno. Un giovanissimo Augusto Patetta (primo a destra in fondo) al Corso   per Assistenti Tecnici oon specializzazione in Apicoltura tenutosi a   Torino nella primavera del 1974Fra Benedetto si dedicò poi completamente all’apicoltura, anche se a livelli ancora modesti, hobbistici. Un nuovo impulso ci fu con l’arrivo di Padre Giovanni Amani, un giovane frate, questa volta sacerdote, che cominciò a interessarsi più con spirito da imprenditore, ampliando e migliorando la lavorazione e il laboratorio, e assumendo un po’ di personale. Di lì iniziò l’ascesa di questo centro, che per la Liguria ha continuato a costituire un punto di riferimento.
Andai anche a trovare un signore a Savona, che era l’unico, all’epoca, ad avere un negozio di miele. Si chiamava Cavalletto e mi disse: “Guardi, lasci perdere le api, perchè con le api non se ne viene a capo. Ho un negozietto piccolo ma ho difficoltà a tirare avanti perché la gente non compera il miele (all’epoca costava 350 lire al chilo). Costa molto di più dello zucchero e la gente lo usa se ha un po’ di mal di gola, ma non certo come dolcificante alternativo allo zucchero”. Questo mi demoralizzò, ma solo un pochino, alla fine non era il mio lavoro”.
E anche perché gli sviluppi successivi dell’apicoltura in Liguria, come vedremo, furono ricchi di entusiasmi.

Una tesi sul nosema
Così cominciò la sua avventura con le api, che lo portò di nuovo all’Istituto per tutta la parte sperimentale legata al monitoraggio del nosema. Il lavoro fu svolto nell’apiario sperimentale dell’Istituto, e in quello di Reaglie.
Si scoprì che questa malattia era più diffusa di quanto si potesse immaginare, un po’ quello che accade oggi. Dai grafici si vedeva benissimo che nel mese di marzo la malattia era presente nel 90% degli alveari, poi declinava gradualmente e lentamente fino a sparire quasi del tutto nel mese di luglio, per ricomparire con delle punte in ottobre e ricominciare. Il metodo di analisi era abbastanza accurato: non si usava il sistema sbrigativo di schiacciare gli addomi, ma si sfilavano ape per ape gli intestini: un lavoro lungo, ma che dava dei buoni risultati dal punto di vista statistico.
Lo aiutò un certo Paniri , un ricercatore del Madagascar che lavorava in un Istituto del suo paese e che era all’Istituto di Torino proprio per approfondire la sua conoscenza delle malattie delle api.

Risveglio apistico in Liguria
Dopo essersi laureato nel 1971, Patetta partì militare. Quando tornò dopo la lunga interruzione, era partita una borsa di studio con la Camera di Commercio di Savona. Nella commissione c’era il prof. Vidano, il dott. Ugo, funzionario della Camera di Commercio di Savona e apicoltore, e il prof. Marletto. Sulla base della valutazione del suo lavoro sul nosema, dei suoi rapporti con l’apiario benedettino, del fatto che era ligure, Patetta vinse la borsa, anche se avrebbe dovuto comunque svolgere la sua attività prevalente a Torino. Vidano, che era interessato alla microscopia elettronica, lo indirizzò in quella direzione. Patetta cominciò a dedicarsi alla ultramicroscopia e all’ultramicrotomia. Sul versante ligure, era intanto maturata l’idea di fondare una Cooperativa (Apiriviera) di cui fu presidente il dottor Ugo. Patetta fu mandato in Liguria tutti i sabati a fare assistenza tecnica. Fu un momento di grande sviluppo, insieme alla Cooperativa, anche dell’apicoltura ligure: un momento di fortuna, in cui era persino difficile fronteggiare le richieste di alveari; molti hobbisti si facevano avanti, si svolgevano corsi continui con grande frequenza di neofiti interessati.

Entomologia divora apicoltura
Nell’81 le cose cambiarono un po’: avendo intanto vinto il concorso come contrattista e poi come ricercatore, Patetta non aveva più tutta quella disponibilità di tempo per la Liguria e cominciò ad andarci soltanto ogni 15 giorni finchè smise, ma ancor oggi conserva contatti con Padre Giovanni. Il dottor Ugo morì poi nel 91. Patetta cominciò all’Istituto un’attività a tempo pieno con particolare interesse per la patologia apistica. Intanto cominciavano a uscire richieste di didattica anche nel corso di entomologia e nel corso di zoloogia, oltre alle esercitazioni nel corso di Apicoltura. Vidano era passato dall’Istituto di Apicoltura a dirigere l’Istituto di Entomologia, in cui fu inglobata Apicoltura, sotto la direzione del Prof. Franco Marletto. Fu a questo punto che cominciò un periodo di minor dedizione all’apicoltura.

Domeniche in apiario
Patetta si era trasferito a Torino dopo la laurea. La moglie era di Ceva, e fu nella frazione di Roascio, che, partendo dai bugni villici di un nonno della moglie, egli fece le sue prime esperienze dirette di travaso. Quando andava là la domenica, si dilettava a portare piccole novità: l’arnia razionale al posto del bugno villico, il sistema del travaso quando era ancora diffuso l’apicidio, l’uso dello smelatore. Era una bella cascina, isolata, e la giornata di festa era rallegrata dall’arrivo di lui che “pasticciava” con le api e che si prendeva le sue brave punture, tra le risate degli altri che si divertivano a osservarlo.

La problematica degli avvelenamenti
All’Istituto nel frattempo un altro problema aveva coinvolto il Prof. Vidano e, in seguito, la Prof.ssa Arzone: quello degli avvelenamenti di api, inizialmente con l’Endosulfan. Molti prodotti venivano comunemente utilizzati in agricoltura, senza che mai fosse indicata la pericolosità per le api. Patetta venne coinvolto poiché aveva già una certa dimestichezza con le api: c’era bisogno di qualcuno che mettesse le api in gabbiette senza avere paura. Dopo un iniziale lavoro di manovalanza, Vidano lo coinvolse in un lavoro che durò una ventina d’ anni, che iniziò nel 77-78 e che presto passò interamente nelle sue mani. A quel punto la Arzone partecipò in veste di collaboratrice soltanto, e Vidano abbandonò quel filone di ricerca.
Anche qui ci furono esperienze particolari: erano appena usciti i microincapsulati, prodotti dalla SIAPA, che venivano presentati come la soluzione a tanti problemi, mentre Patetta, Vidano e la Arzone dimostrarono che facevano morire le api come gli altri. Questo suscitò la preoccupazione di tanti acquirenti che li avevano già acquistati o dovevano acquistarli. Ma soprattutto della ditta produttrice, che si presentò dopo una settimana all’Istituto nella persona del direttore e del vicedirettore del Centro Esperienze Ricerche della Siapa in Italia. “Ci chiesero le nostre intenzioni e ci offrirono strumenti per procedere nelle nostre ricerche. Noi cercammo di mostrare che ci sentivamo, tranquilli, liberi, che intendevamo continuare questo tipo di ricerca e che non eravamo facilmente “corruttibili”. Facendoci forza di questa libertà, continuammo. Perché una volta che ci avessero finanziati non saremmo stati più padroni dei dati che avremmo ottenuto, e la ditta avrebbe deciso di pubblicarli o no a seconda del suoi interesse. Mi è sempre piaciuto poter lavorare con serietà e rigore”.
Venne iniziata una lunga serie di analisi di prodotti, 4 o 5 ogni anno: il periodo di lavoro era infatti limitato dal periodo di attività delle api.

Un primo amore un po’ tradito
L’Istituto di Apicoltura e Bachicoltura era diventato Istituto di Entomologia e Apicoltura, poi diventò Dipartimento di Entomologia, e dopo la fusione coi patologi diventò DivAPrA. Ma all’inizio, negli anni 70, l’apicoltura godeva di una certa indipendenza. L’istituto di Apicoltura aveva due piccole postazioni di api su in terrazzo in Via Donizetti, nel centro di Torino, e in un cortile che divideva con la facoltà di Medicina. Poi c’era l’apiario di Reaglie, ma era troppo difficilmente raggiungibile per le prove sui veleni. Cominciò un legame sempre più serrato con l’entomologia che portò nell’86 Patetta a occuparsi di zoologia e Manino di entomologia, avendo vinto i rispettivi concorsi. Pur continuando a occuparsi di apicoltura, dovettero cedere a interessi istituzionali. Patetta fece ancora dei corsi di patologia apistica, negli anni 93-94 c’erano corsi denominati “Scuola diretta a fini speciali” e “Diploma Universitario”, e lì entrava anche un po’ di apicoltura con parti anche consistenti di Patologia Apicola , a uno dei quali partecipò il dott. Floreano, attuale presidente di Agripiemonte Miele.
Questi corsi sparirono, per lasciar spazio alla “laurea breve” e ci fu un’ulteriore riduzione dell’Apicoltura, che rimase affidata al Prof. Marletto.
Nell’ 89 era morto Vidano, ed era subentrata la Prof.ssa Arzone, che si sentiva soprattutto entomologa. Marletto comunque conservava la sua posizione. Ma fu un periodo di continui cambiamenti nella struttura dei corsi universitari e l’ apicoltura cominciò a perdere sempre più terreno.
A Torino era rimasto ben poco, solo all’interno di un corso di entomologia forestale c’era una parte di apicoltura tenuta da Marletto. Nel 1999 cominciò la malattia di Marletto, mentre Manino e Patetta avevano assunto altri corsi. Nel 2001, quando Marletto morì, l’ apicoltura era quasi sparita. Allora un settore del dipartimento si mosse per valorizzare un patrimonio che comunque c’era: quello di Torino era rimasto uno dei pochi insegnamenti di apicoltura a livello italiano, c’era se non altro la traccia di un vecchio, glorioso Istituto. E furono soprattutto Patetta e Manino a cercare di dare respiro a questa parte. Qualche spazio era stato ritagliato inizialmente con qualche diploma universitario, poi con qualche laurea breve. E alla fine fu inserito nei programmi un corso facoltativo di 30 ore a Saluzzo, nell’ambito di un Diploma di Difesa Piante Fruttifere, tuttora esistente, dedicato soprattutto a impollinazione e avvelenamenti . Fu già un piccolo successo. Poi venne inserito un corso di laurea specialistico di 50 ore, a cavallo tra Agraria e Veterinaria. I veterinari, pur avendo sempre istituzionalmente tenuto le fila della patologia apistica, riconoscevano di non avere mai avuto la dovuta preparazione. E un interesse per l’apicoltura era rimasto sempre vivo tra gli studenti di entomologia e zoologia: finalmente era possibile andare incontro alla loro richiesta.
Nel frattempo era arrivato il dott. Porporato, che era già stato presente precedentemente, e nel momento in cui diventò ricercatore cominciò a dedicarsi soprattutto a due corsi di apicoltura, che tiene tuttora. Patetta e Manino erano stati invece ormai deviati su tutt’altro.

“Questo mio primo amore è stato dunque un po’ tradito”.
Il rapporto con l’apicoltura non era iniziato da un mio particolare interesse, ma poi mi ci sono affezionato: è stato il mio primo interesse importante, e il mio primo contatto importante col mondo agricolo. E sono andato avanti anche per conto mio. Sono riuscito a mettere in piedi, aiutato da un amico, un apiario di una certa dimensione e mi ricordo che molte domeniche le passavo lì, seduto di fianco alle api, a guardarle lavorare. E’ una cosa che mi ha sempre attirato, mi è sempre piaciuta. Certo, c’erano anche le punture o qualche disavventura. Io le avevo a 100 chilometri da casa mia. A volte mia suocera mi telefonava: “Guarda che è uscito uno sciame, cosa dobbiamo fare?” E più di una volta sono partito da Torino per andare a prendere uno sciame che creava problemi. A volte ho tagliato la pianta per prendere lo sciame, o sono andato a vedere le api sotto un metro di neve, per vedere se erano ancora a posto. Ho dovuto poi abbandonare questa attività della domenica, che a me piaceva moltissimo. Ma non è detto, se ne avrò la possibilità, che non mi dedichi nuovamente a questo hobby. Era stato il primo contatto col mondo agricolo e mi era proprio piaciuto. Io credo in quelli che sono i valori delle api, non tanto quello monetario, e quanto al miele lo mangio, sì, ma non mi piace alla follia. Quello che mi piace è veder le api in attività, pensarle sui fiori che fanno l’impollinazione. Con questo spirito un po’ bucolico, purtroppo sono finito ad abitare a Torino, in Corso Raffaello, ma la speranza c’è ancora. Su nelle Langhe abbiamo del terreno, mio suocero ha un’azienda agraria in parte zootecnica, abbiamo ancora attrezzature e se dovessi dedicarmi a qualcosa che ha a che fare con l’ambiente, colla terra, io farei sicuramente l’apicoltore, non mi dedicherei ad arare i campi, a parte l’orticello. E’una cosa nata quasi per gioco, ma è diventata una passione. Mai più pensavo di finire qui, nell’ormai lontano 71, quando mi sono laureato”.
Questa in sintesi la storia di questi trent’anni.

Gli anni d’oro dell’Istituto
“Qui si lavorava molto bene, c’era un rapporto anche famigliare, era un Istituto piccolo”.
Quando arrivò Patetta, nel ‘70, c’era il Professor Vidano, il Professor Marletto, allora assistente e laureato più anziano, ed era arrivata anche la Prof.ssa Ferrazzi, che si era poi dedicata prevalentemente alla parte di botanica. C’era la dott. Ferresini, alimentarista, laureata a Milano, che si interessava di miele. L’istituto stava crescendo e lei si era interessata all’acquisto del gascromatografo, allora utile per individuare lo spettro glucidico.La Ferresini, che non vedeva nell’Istituto possibilità di carriera, se ne era poi andata. Arrivò poi Piero Piton, che ancora oggi si interessa di apicoltura. Allora si dedicava soprattutto agli aspetti legislativi e poi divenne libero professionista. Andò in pensione col minimo pensionabile, per dedicarsi alla libera professione nella sua Val Chisone, e tiene tuttora dei corsi a Reaglie.
”C’era il tecnico Bizzarri che poi se ne andò e che si interessava di fotografia. Vidano era molto interessato alla fotografia, ci vedeva una possibilità per trasmettere in modo più immediato anche delle sensazioni, delle emozioni… l’ape sul fiore che si sta movendo… e questo settore ebbe un notevole sviluppo.
C’era Felice, l’inserviente, e una segretaria.
Eravamo in due appartamentini in Via Ormea 99, al pianterreno. Era un palazzo con la portineria e c’era un viavai di apicoltori, anche perchè eravamo vicini alla stazione. Avevamo modificato le camere per renderle funzionali al lavoro. Erano due appartamenti e avevano due bagni, uno dei bagni era stato trasformato in camera oscura e l’altro bagno era sempre utilizzato come bagno, ma anche per metterci anche qualche strumento e lì ci avevamo infilato la buffola, tanto per dire com’era approssimativa la situazione. Avevamo poi messo dei divisori in vetro per ricavare una parte per l’ultramicrotomo, che ha bisogno di tranquillità sia per la delicatezza dello strumento che per l’uso. In un altro ambiente c’era il grascromatografo, non avevamo uno studio per ciascuno, eravamo tutti insieme, era una situazione molto approssimativa. Poi ci fu un aumento dei contributi, che Vidano era abbastanza abile nel cercare. Era anche un momento di una certa fortuna dell’apicoltura, e si stava sviluppando anche tutto il concetto di ecologia. Coi contributi erogati, avevamo preso un terzo alloggio, al primo piano, dove il bagno rimase tale, e fu utilizzato solo per fare dei lavaggi di gabbiette. C’era poi una specie di sala utilizzata come studio del prof. Vidano. Avevamo messo insieme una biblioteca e c’era una segreteria che aveva cominciato a funzionare più attivamente per la rivista “l’Apicoltore Moderno”, che all’epoca passato dalla gestione della sorella di don Angeleri, Maria Grada, a noi: con tutti i problemi legati non tanto alla stampa, ma alla gestione dello schedario abbonati: per un po’ di tempo eravamo andati avanti con gli indirizzi su delle piastrine metalliche e tutte le volte si dovevano stampare le buste. Poi sono comparsi i primi computer con cui si facevano con più facilità. Poi l’Apicoltore Moderno, nel 97, è finito. C’eravamo sistemati bene, avendo a disposizione tre camere, fino al trasferimento nella sede attuale che è avvenuto nel 1990”.

L’Apicoltore Moderno
Inizialmente, quando Patetta arrivò all’Istituto, la rivista era ancora in mano a Maria Grada Angeleri, che però era anziana, e in realtà se ne interessava già Vidano.
“Tutti noi avevamo un rapporto con L’Apicoltore Moderno, intanto perché abbiamo utilizzato tutti questo mezzo per pubblicare. Le pubblicazioni per noi avevano una certa importanza. La rivista era un modo per avere un tornaconto dal nostro punto di vista, e nello stesso tempo per dare informazioni agli apicoltori su quelle che erano le nostre ricerche all’interno del settore, e questa era la cosa più importante. C’era un direttore, Vidano, un vicedirettore, Marletto, e tutto il gruppo di noi che faceva da redazione. Quando arrivavano i lavori esterni si faceva un giro di verifica e poi si pubblicavano. Non c’era una redazione ferrea che rifiutasse qualcosa, facevamo solo correzioni se c’erano errori grossolani, e, in genere pubblicavamo”.

Perché è finito?
“Io ho continuato a seguire gli apicoltori e ho avuto anche modo di subire degli attacchi, in parte giustificati, da parte degli apicoltori, proprio sull’Apicoltore Moderno, perché mi si diceva che aveva un po’ perso quella che era la sua vocazione di giornale per la diffusione dell’apicoltura, per assumere più una veste di rivista scientifica. E questo finiva per non soddisfare le esigenze degli apicoltori.
A questo proposito posso dire di qualche dissapore avuto col Professor Vidano all’inizio della mia carriera quando gli dissi che si sarebbe potuto scrivere qualcosa sulle attività della stagione, su quelle cose spicciole, e Vidano mi disse: “No di queste cose se ne interessano gli altri, noi siamo una rivista scientifica”. Dal nostro punto di vista, i lavori nostri che pubblicavamo ci sembravano interessanti, ma a gran parte degli apicoltori interessavano relativamente poco, questa fu secondo me una prima causa.
Una seconda causa fu che in questo periodo l’apicoltura andava bene ed è stato un periodo in cui son nate tantissime riviste. Tutte le associazioni avevano i loro tecnici e pubblicavano la loro rivistine, che finivano per essere più vicino a quella che era la realtà di una zona, e questo ha un pochino allontanato gli apicoltori dall’Apicoltore Moderno.
Poi c’è stato, a seguito del calo degli abbonamenti e dell’aumento delle spese di tipografia, anche un certo aumento del prezzo dell’abbonamento. C’era chi ci faceva sapere “A me non interessa più tanto”, o vecchi abbonati che ci dicevano ”Io ormai l’apicoltura non la faccio più, lascio perdere”.
E a volte veniva persino a mancare il materiale da pubblicare, perché c’era chi preferiva avere risonanza maggiore nel mondo apistico, allora pubblicava sulla rivista che aveva più diffusione, mentre l’Apicoltore Moderno si riduceva un pochino, finiva nello studio di questo o nel laboratorio di quell’altro e il mondo apistico finiva per non essere al corrente di certe idee.
C’era stata anche una diminuizione dei contributi. In effetti L’Apicoltore Moderno prima era mensile, poi è diventato bimestrale, poi se ne pubblicavano quattro numeri l’anno, proprio per questo: chi voleva pubblicizzare per esempio un certo tipo di arnia, sceglieva una rivista di maggior diffusione. Negli anni 90 non c’ è stata la possibilità di andare avanti, e non è stata una morte improvvisa, ma un rallentamento, un decadimento. Anche dal mondo scientifico non c’era tutto questo entusiasmo, questa è l’impressione che ho avuto. Ho partecipato a diverse riunioni. Perché poi quando qualcosa sparisce allora ci si rammarica, ma solo perché è sparito. Si cercò di utilizzare l’utilizzabile, di non lasciare andare in malora tutto questo patrimonio. In queste riunioni si parlava della necessità di avere una rivista, ma sempre tra organi accademici: c’era il problema che una rivista scientifica doveva essere scritta in inglese, accessibile a tutta la comunità scientifica, oltre che avere articoli di un certo livello. Si è andati avanti a cercare di far rivivere questo ormai cadavere che era l’Apicoltore Moderno, ma non si è concluso niente. Si voleva che la cosa continuasse a fare riferimento a Torino, ma Marletto era ormai morto, l’ultima riunione su questi problemi a cui aveva partecipato era stato a Bologna nel 1999. C’erano addirittura discussioni sul nome, era stato proposto, per esempio,“Apicoltura Mediterranea”: alla fine, tante idee ma poco costrutto. Ci fu anche l’esperienza non particolarmente felice di “Apicoltura” di Roma, che è andata avanti per 10 anni con la Persano Oddo.
Recentemente è uscita Apoidea, che ha un po’ripreso tutte le idee via via emerse. Ad Apoidea siamo collegati, diamo contributi.
Certe sono idee molto personali, ma io ho sentito le critiche degli apicoltori: “noi leggiamo, leggiamo, ma alla fine non ne caviamo niente”. Io lo imputo anche alla comparsa di tante riviste, ma una certa pecca c’era anche da parte nostra: avessimo fatto rubrichetta, anche poche pagine, ma più vicine gli apicoltori, forse la cosa sarebbe andata più avanti. Quando ebbi l’opportunità o il coraggio di parlarne a Vidano, questa idea venne subito accantonata, salvo poi magari qualche anno dopo riprenderla”.

Una nidiata di tecnici
“I tecnici laureati qui hanno scelto questo settore perché già avevano una certa passione per l’apicoltura, e saputo dell’esistenza di questo Istituto, hanno deciso di entrarvi. Carlo Olivero, Roberto Barbero, Giuseppe Diale, Luca Allais…è rimasto un rapporto con tutti. Con Olivero ci siamo visti anche recentemente. Allais viene a confrontarsi sul Nosema, Barbero viene un po’ meno perché sta lontano, ma ci troviamo alla Commissione Apistica Regionale di cui siamo entrambi membri. A volte viene qui per concordare dei lavori.
L’unico sparito è Giacomo Olivero, di Sanfrè, che aveva le api, si è laureato in agraria con una tesi sulla propoli, ha collaborato con noi e preso una seconda laurea in scienze naturali, ma poi ha cominciato a insegnare e questo ce l’ha allontanato. Ogni tanto capita qui come studente qualcuno che era stato suo allievo alle superiori.
Anche con Diale manteniamo rapporti.
Attualmente, spero possa andare a buon fine una tesi sul nomadismo di Mario Bianco, che è il figlio di un grosso apicoltore morto di recente”.

“Meetings with remarkable men”
“Attraverso i Frati Benedettini e Apiriviera, che organizzava corsi e seminari, e attraverso poi i corsi per assaggiatori, ho conosciuto Giulio Piana con cui ho avuto rapporti buoni. Poi morì, a 53 anni. E Porrini, di Varese, con cui anche ho avuto contatti frequenti , ero andatola lui anche per avere dei suggerimenti, per cercare di organizzare al meglio un impianto, che si voleva fare dai Benedettini, per il miele a caduta. Lui era venuto giù, e c’era stato uno scambio.
Anche Cappelletti è venuto diverse volte. Piana e Porrini mandavano sciami in Africa per l’impollinazione degli agrumi , anche 300 sciami per volta. I locali ritiravano il materiale e lo portavano nelle zone di impollinazione, ma non volevano l’interferenza degli italiani. Però avevano delle difficoltà a gestirle. Le api duravano poco e l’anno dopo già le richiedevano di nuovo, cosa che a Porrini e Piana ovviamente andava benissimo.
Panella l’ho conosciuto all’inizio della sua carriera. E anche apicoltori liguri come Castellano.
Attraverso Apiriviera conobbi anche Allegri, della zona di Borghetto, che aveva 5-600 famiglie
Ho conosciuto anche Bianco, quando stava iniziando. Ultimamente ha avuto un grande sviluppo, poi è morto”.

Storia di malattie: il nosema…
“A volte le cose non si vedono perché non si cercano. Nel ‘71 ho fatto tutti i controlli su alveari nostri e anche di altri, e spesso c’era nosema. Ho dato la colpa alle caratteristiche del nosema, a questo suo attacco piuttosto subdolo, secondo me il nosema c’è sempre stato, e anche, più o meno, nelle attuali proporzioni.
Quello che succede adesso non è una novità: è già successo in passato che il nosema saltasse fuori creando qualche problema, qualche focolaio più consistente. Ma allora c’era la fumagillina, il Fumidil B: si facevano due o tre trattamenti, si dava qualche consiglio sulla disposizione degli alveari e tutto finiva lì. Perché non è mai stato troppo considerato? Perché attacca in modo massiccio nel periodo primaverile, i francesi lo chiamano spopolamento primaverile. Se non sono attacchi forti, difficilmente cadono sotto gli occhi di un apicoltore anche attento. Poi la famiglia un po’ si riprende, a meno di una batosta particolarmente forte, e la malattia finisce per sparire, finchè a luglio non si trovava quasi più. C’è un ricambio frequente, in quel periodo, e anche se invece di 45 giorni le api vivono 37, nessuno se ne accorge. Inoltre le api possono anche abbandonare gli escrementi fuori.
Adesso si comincia a pensare che con tutte le malattie che ci sono, una qualche influenza possa averla il nosema. Io ne ho sempre parlato, anche se poco ascoltato.
Il Fumidil è solo batteriostatico, blocca i protozoi che poi vengono eliminati con gli escrementi.
Adesso stiamo analizzando la presenza del nosema anche da un punto di vista un pochino più attento: queste spore quante sono? e ne risentono le famiglie o no? Quanto ce ne devono essere per vedersi dei sintomi?
Quando ero più attento a questi problemi sembrava importante solo la peste americana. Io ho sostenuto che c’era anche altro, pochi allora pubblicavano sul nosema.
Il nosema secondo me ci ha lasciato sempre abbastanza vivere. La soluzione potrebbe essere di trovare un medicamento che possa evitarne la diffusione, e una buona conduzione dell’apiario”.

…la peste americana…
“Nell’ 81 è arrivata la varroa, e la peste è diventata meno importante per gli apicoltori. Ma le malattie ci sono e ci saranno. Non bisogna abbassare la guardia nei confronti di niente. Anche quando sembra che siano in regressione.
Quando si dice “distruggete, distruggete” gli apicoltori in genere non lo fanno e uno dei motivi per cui adesso ci stiamo impegnando su questo programma è di cercare di avere un metodo di indagine che sia in grado di evidenziare la malattia quando non sono ancora visibili i sintomi evidenti, con analisi del miele o delle api, perché la peste comunque c’è.
Stiamo studiando un metodo sulla base dell’idea di evidenziare spore non soltanto nelle celle malate, ma un rapporto tra spore sulle api e la possibile comparsa della malattia, così da poter correre ai ripari prima delle manifestazioni della malattia che tutti conosciamo. Riteniamo che questa sia la strada da percorrere
Mi ricordo una denuncia che c’era stata in Liguria, alla Camera di Commercio di Savona. C’era allora il dottor Ugo. La zona era Ferrania, vicino al paese dove abitava la mia famiglia. Era stata fatta la denuncia ufficiale e i veterinari hanno applicato il regolamento di polizia veterinaria. Io andai a vedere le api, accompagnate da un veterinario, che mi disse: “Vai tu, io sto lontano perchè non voglio essere punto”. Trovai 3 o 4 focolai molto consistenti, in bugni villici e in arnie semi-razionali -perché venivano abbandonate e da razionali diventavano semirazionali. Fu l’unico caso che io ricordi di denuncia ufficiale.
Consigliavi di bruciare, ma c’è sempre stata una diffidenza, una perplessità nei confronti di quello che noi suggerivamo. Qualcuno la mascherava dietro una forma di affezione alle api, ma preferivano il sulfatiazolo. Facevo le solite prediche, sicuro di non essere ascoltato o quasi. Secondo me è ancora una delle malattie più preoccupanti e di quelle che danno i maggiori dispiaceri.
Quando tengo lezioni di patologia, metto sempre in guardia: attenzione che non diventi come quando uno legge un’enciclopedia medica e si sente addosso tutte le malattie del mondo… però sulla peste americana calco ancora la mano.
Il kit dà una risposta, ma già a un certo livello di infestazione, quando è troppo tardi per prevenire la malattia.
L’eliminazione del materiale infetto, trovare gli apicoltori che possono aver abbandonato le famiglie, è difficile”.

…la peste europea…
“Il motivo per cui adesso salti fuori la peste europea lo collegherei alla varroa, è un collegamento probabile, è una malattia che può comparire come malattia da stress, ma tutta quest’esplosione non l’ho ancora vista. E’ un quadro un po’ confuso potrebbero esserci altri elementi. Di peste europea arrivavano pochissimi casi in Istituto, il 99 per cento era peste americana.
Cammin facendo se ne è sentito parlare sempre di più
Per mia esperienza, fino a 25-30 anni fa ci sono stati pochissimi stadi, poi questa esplosione”.

…acariosi…
“Io ne sento ancora parlare, secondo me potrebbe riapparire. E’ una parassitosi strana, attacca a macchia di leopardo. Negli anni ‘50 ci sono stati attacchi pesantissimi in Val d’Aosta, ho potuto assistere ad attacchi pesanti nell’acquese, c’erano delle zone in cui tutte le api erano coinvolte, e solo a poca distanza non c’era più. Ancora più di altre malattie l’acariosi si diffonde per contatto diretto. E se non c’e nomadismo non si estende in zone più vaste. Era sparita con l’impiego dei prodotti antivarroa. Inizialmente si usava il Folbex , poi il Folbex forte, erano prodotti fumiganti che potevano penetrare all’interno delle api. Non è improbabile che, come è sparita la Braula Coeca, siano sparite anche queste parassitosi.
A volte però sono arrivato a parlare, con gli apicoltori, di Acariosi, e alla fine ecco che alcuni arrivano e dicono di aver notato dei sintomi che possono coincidere. I sintomi non sono però così specifici.
Potrebbe essere dovuto all’ uso di prodotti antivarroa diversi, che non sono efficaci sull’acaro.
Credo comunque che qualcuno abbia fatto indagini. Magari non lo dicono. In Liguria ci sono almeno tre veterinari- apicoltori e fare un’indagine su Acarapis Woodi non è difficilissimo, basta schiacciare un torace e fare un vetrino. Ci sono apicoltori che me ne riferiscono dicendo“ho sentito che…”: non saranno loro stessi?”

E oggi?
“Qualcuno arriva a portarci dei telaini o delle api da esaminare, ma non c’è più il rapporto stretto di una volta. Mi ricordo che a primavera arrivavano apicoltori a tre o quattro alla volta, e si passavano i pomeriggi a parlare. Adesso l’Istituto non è più una figura centrale, e questo ci dispiace molto. Noi ci siamo sempre sentiti abbastanza vicini agli apicoltori, non sempre gli apicoltori si sono sentiti vicini a noi. Se serviamo ci seguono, altrimenti si dimenticano di noi. E la posizione un po’ drastica che abbiamo preso sulle malattie non sempre ha giovato a migliorare questi rapporti. E anche la maggiore distanza col trasferimento a Grugliasco. Così abbiamo perso un po’ il contatto col mondo applicativo. Avremmo piacere di riprenderlo, penso sia un motivo della nostra esistenza: è inutile che io faccia dei begli studi se poi restano chiusi in un cassetto. Ed è per questo che stiamo cercando di fare qualcosa non solo di utile, ma che abbia anche una ricaduta immediata, questo è il nostro interesse. Sappiamo che gli apicoltori si sono rivolti anche ad altri, è giusto, però noi siamo rimasti un po’al palo. Anche se non abbiamo così tanto tempo, mi rincresce: quel fermento, che all’epoca poteva a volte perfino risultare fastidioso, oggi ci manca”.