Storia

Apicoltura nel Roero – Storia

Apicoltura nel Roero

Paolo Faccioli, agosto 2006

Negli anni Venti/Trenta del trascorso secolo emergono, nel Roero, due figure di preti-apicoltori: don Giovanni Panera, di Canale, e don Sandri. Più posato il primo, studioso e insegnante di Francese all’Avviamento, di carattere più battagliero, duro con i suoi alunni della scuola elementare, il secondo (così lo ricorda il dott. Giovanni Bordone, veterinario, figlio di Domenico detto Minòt, padre dell’apicoltura nel Roero). Dedito all’agricoltura, don Sandri abitava in una casa sua, non in canonica. Durante la Grande Guerra era stato ufficiale degli Arditi. Girava in bicicletta, con le sottane arrotolate, e oltre ai 7-8 alveari che aveva a Canale, gestiva quelli di altri, facendo a metà col miele. Arrivava, nel suo girovagare, a San Bernardo, a Bra, a Fossano, a Sant’Albano, a Mondovì, fino a Racconigi. Aveva in mente un consorzio, e si faceva portatore delle innovazioni di Don Giacomo Angeleri. Seguendo il suo esempio, proponeva il passaggio dai bugni villici all’arnia razionale, che insegnava tecnicamente a mettere in atto. Ma soprattutto trasmetteva una grande passione.
Domenico Bordone, detto Minot, padre dell’apicoltura nel RoeroAnche Don Panera aveva collaborato con Don Angeleri, tra l’altro traducendo un testo di apicoltura (“L’Ape e l’arnia”) dal francese, lavoro che si dice fosse all’origine di screzi tra i due, probabilmente di natura economica. Da Don Panera si recava la domenica Domenico Bordone, per parlare d’api.
Quando “Minòt” iniziò l’apicoltura, probabilmente subito dopo la prima guerra mondiale, il figlio Giovanni era bambino. Si laureò poi in veterinaria nel 53 e aiutò il padre ancora per un po’, per cedere il compito al fratello, che fino a due anni fa aveva ancora un po’ di alveari.
Domenico Bordone iniziò la pratica del nomadismo fin da prima della guerra, aiutando Stefano Capello di Monteu, e nei suoi viaggi si incrociava coi soldati. Per arrotondare i guadagni, raccoglievano radici di genziana, sfruttando la terra smossa per la costruzione di fortificazioni. Si approfittava di questi spostamenti anche per sconfinare in Francia e cambiare valuta al momento opportuno. Anche Nicola Cauda, che imparò l’apicoltura da Bordone, ricorda come il nomadismo si intrecciasse a una certa attività di contrabbando. Capello a un certo punto prese al lavoro cinque uomini che li aiutassero a riempire i sacchi di erbe officinali, con la cui vendita guadagnavano bene. Si dormiva dove si poteva, in tenda, circondati dalle vipere, o nei fienili, con le galline.
Nella zona c’erano ventimila soldati,la fame era tanta, Capello e Bordone nascondevano farina di meliga e farina bianca negli alveari perché non fossero requisite.

Negli anni della guerra i camion a nafta erano stati modificati per funzionare a vapore, i viaggi erano faticosi e avventurosi, capitò anche che il calore facesse liquefare la cera di alcuni alveari. Ogni 500 metri, quando si era in salita, occorreva fermarsi a pulire gli ugelli. Occorreva spicciarsi e non ingombrare la strada che serviva ai soldati.
A questi viaggi si aggregavano al paese improvvisati aiutanti, che erano ben disposti a dare una mano per il piacere di una gita in montagna.
Il miele veniva venduto nelle drogherie o nelle farmacie, sfuso, riempiendo recipienti di coccio o di vetro da 10-15 chili.
Avevano una cinquantina di alveari, e Giovanni ne avrebbe volentieri tenute di più, ma con più alveari sarebbe stato necessario trascurare la campagna. A quei tempi – ricorda Giovanni – con due “giornate (3810 metri quadri) di vigna “eri un signore”. La vigna e un po’ di alberi da frutto piantati sui margini.

Foto  Roero

Diploma conferito ai fratelli Panera in occasione di una delle “Giornate del miele” organizzate dalla Federazione Fascista Agricoltori, 1929

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Necrologio di Don Giovanni Panera, prete-apicoltore del Roero

Minòt insegnò l’apicoltura a Gervasio Brezzo e Nicola Cauda, iniziatori di altre apicolture storiche del Roero. Da Brezzo impararono a loro volta il figlio Giuseppe e Claudio Cauda, nipote di Nicola, titolari di due tra quelle che sono le più consistenti aziende della regione.
Il padre di Gervasio Brezzo, Giuseppe, possedeva fin da prima della guerra, circa 15-20 alveari. Nicola Cauda testimonia quanto l’attrazione esercitata dalle api fosse diffusa: egli stesso, da bambino, giocava con una cassettina di legno che riempiva di maggiolini per simulare un alveare

Insieme al padre di Claudio Cauda, Gervasio Brezzo prese ad andare la domenica mattina in bicicletta a Torino per assistere alle lezioni e alle dimostrazioni di Don Giacomo Angeleri. Ad essi si aggregò Taberna, i cui figli sono anch’essi apicoltori. Oggi Gervasio Brezzo tende a dare maggior valore, nella formazione della sua esperienza, al confronto avuto nel corso degli anni coi colleghi sui diversi casi che capita di affrontare in apicoltura, considerando invece libresca la trasmissione avuta da don Angeleri. Eppure fu probabilmente Angeleri a stimolare Cauda e Brezzo a praticare il nomadismo. Gervasio trovò un primo contatto tramite un pastore della Valmaira che portava le sue pecore vicino a Monteu. Il cognato del pastore aveva una trattoria a 1700 metri di altezza. Andarono a prendere accordi percorrendo un tragitto di sette ore in bicicletta, ed ebbero la disponibilità : “La vallata” disse loro il trattore “è tutta vostra”.
Si procurarono un residuato bellico, che impiegò cinque ore per percorrere 130 chilometri. Le api arrivarono mezze asfissiate. Avevano solo quattro melari, e ne improvvisarono altri con l’aiuto di un falegname del posto. La prima esperienza portò l’entusiasmo alle stelle, fecero costruire 100 nuovi alveari e il secondo anno fecero transumare una settantina di famiglie.
Si spostavano principalmente in bicicletta, e solo nel cinquantacinque Gervasio comprò la prima Lambretta. Nicola Cauda ricorda a sua volta questi continui spostamenti in bicicletta, e i trasporti a bordo di un carrettino trainato da due biciclette, di cui una presa a prestito.
In agosto cominciarono a riportare gli alveari, anziché di nuovo a casa, in pianura, sulle piantagioni di menta di Pancalieri e Villafranca Piemonte. Al raccolto sulla menta seguiva quello sulla solidago.

Foto  Roero
In una foto degli anni ’60, Gervasio Brezzo (primo a destra) con alcuni collaboratori in partenza per un trasporto di alveari.

In primavera, iniziarono a praticare degli spostamenti sul tarassaco, che sarebbe stato disponibile anche a Monteu, dove però era pericoloso in quel periodo mantenere le api a causa dei trattamenti contro il ragnetto rosso. Per 25 anni la stagione cominciava ai primi di aprile in pianura, a Moretta, Fossano, Racconigi. Il nomadismo venne poi diversificato includendo i raccolti sul castagno e il tiglio, mentre alcune puntate in Emilia per il girasole si rivelarono in fin dei conti poco redditizie.
Il primo vero camion da nomadismo veniva preso in affitto ed era in grado di trasportare 48 alveari, solo nel 1972 l’azienda si dotò di un OM “cerbiatto” in grado di trasportarne 45, oggi i trasporti sono di un’ottantina di alveari per volta. Dai 400 alveari degli anni 80, oggi l’azienda ne conta il doppio.
All’inizio il miele veniva venduto sfuso, per esempio ai lattai, che negli anni erano 50 punti tipici per la vendita del miele, fino a Fossano, Bra, Alba. Si trattava principalmente di “Acacia” e “Alta montagna”.

Foto  Roero
Gli alveari di Gervasio Brezzo radunati intorno a casa al ritorno dalle raccolte nomadi, 1962

Fino al 70, quando l’azienda cominciò a confezionare in proprio, quasi tutta la produzione veniva conferita a due grossisti di Torino, un grosso lattaio che serviva le latterie e Croce, il cui fratello era un importante produttore di materiale apistico nel Monferrato.
La produzione del castagno (fine degli anni 60 e inizio degli anni 70, anni in cui il figlio di Gervasio, Giuseppe, è già attivo e partecipe) avveniva soprattutto in Valvaraita e a Valcasotto e Pamparato, nelle Alpi Liguri. Anche nel Roero era possibile produrre del castagno,ma inizialmente era un miele difficile da vendere come tale, veniva considerato troppo amaro e richiesto occasionalmente per le sue presunte proprietà antitosse; solo in seguito, a partire dagli anni 70, prese piede nel consumo collettivo, ed oggi è il secondo miele nelle vendite dell’Azienda Brezzo, preceduto dalla sola acacia.
Il miele di tiglio è stato in genere prodotto nelle stesse postazioni del miele di castagno, e dagli anni 70 soprattutto in Val Pellice.
Il miele di menta, dal caratteristico colore rossiccio che diventa, cristallizzando, color caffè, si vendeva invece proprio come tale, e ancora oggi i clienti di allora lo richiedono. Allora la menta forniva nettare per almeno cinque giorni, poi il fiore spariva tutto insieme. Oggi la fioritura è disponibile solo per due giorni, il taglio avviene tutto insieme perché i sistemi di distillazione sono diventati più efficienti.
Anche il miele di tarassaco è sempre stato venduto come tale, e veniva richiesto anche da una clientela locale che credeva nelle sue proprietà decongestionanti per il fegato.
Altrimenti, i mieli richiesti dalla clientela locale erano soprattutto quello di Acacia e di Alta Montagna.
La solidago, che di solito risultava mista a trifoglio, veniva invece venduta come millefiori.
Il melo,la cui fioritura durava 15-20 giorni e che dava origine a un miele bianchissimo, coincideva con il servizio di impollinazione svolto a Legnasco, centro fruttifero del cuneese.

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I Brezzo vicino a una suggestiva rovina nel Roero, nei pressi di un santuario

Al ritorno di Giuseppe Brezzo dal servizio militare, nel 1972, iniziò l’invasettatura di una vasta gamma di mieli monofora e la partecipazione diretta alle varie fiere.
Un miele che è andato incontrando delle difficoltà è quello di rododendro, perché è diventato costoso produrlo ed è diminuita la produzione. Una volta gli apiari stazionavano in montagna da giugno alla fine di luglio, con una produzione di 40-50 chili ad arnia. Pratorotondo, ai confini con la Francia, era uno delle postazioni preferite. Nel frattempo è cambiato il tipo di prato. Il prato nettarifero include lupinella, lingua bovina e salvia selvatica. Oggi grosse mandrie di mucche fanno sparire il prato in pochi giorni. Un altro nemico è la siccità. E in montagna si portano solo alveari di prima scelta, quelli più deboli da metà giugno vengono tenuti in pianura.
Un altro monoflora è la rara melata di abete della Valmaira, che esige un clima caldo umido. Se ne produceva di più una volta, ma era difficile trovare da venderla (si parla di quarant’anni fa), e solo in seguito ha cominciato a essere apprezzata nei negozi specializzati.
La lavanda veniva prodotta da Gervasio Brezzo in una postazione in Valmaira, dove ce n’erano delle coltivazioni che poi sono state abbandonate.
L’azienda Brezzo riflette dunque un mercato, anche di origine locale, già attento ai mieli monofora, e, a differenza di aziende più orientate a grossi quantitativi di un numero limitato di qualità, si specializza nella varietà.
Seguendo questo tipo di impostazione, l’azienda ingrandì la rete di vendita, per fronteggiare un certo calo di interesse e di redditività del miele (soprattutto con la concorrenza del miele ungherese), includendo frutta sciroppata e confetture, per cui veniva utilizzata e valorizzata la frutta locale. Oggi i Brezzo hanno in catalogo 450 articoli, che includono 18 qualità di miele (da sette a nove prodotti in proprio) e un aceto di miele, rimane dovuto al miele il 50% del fatturato.